“Questa maniera di parlare di sé parlando d’altro, e di parlare d’altro parlando di sé, è la mia maniera di propormi, ma credo appartenga a molti scrittori a cominciare da Rousseau e da Stendhal. Davanti a loro mi inchino e offro anche io con questo libro la mia pietruzza”: leggere Cent’anni di impazienza (Minimum Fax) a pochi messi dalla morte di Raffaele La Capria è stata un’esperienza entusiasmante e vorrei, in quest’oasi riflessiva, trasmettere al lettore il senso di bellezza, vitalità e intelligenza che mi ha avvolto mentre scorrevo un’autobiografia letteraria che vuole raccontare, di ciascun libro del suo autore, gestazione e percorso ideativo, tematico e formale, alla luce di una constatazione più che di una considerazione: tutti quei libri non sono altro che lunette e pareti di un solo grande affresco che racconta l’intera vita di La Capria.

Per chi come me appartiene alla generazione della fine degli anni ’70 e dei primi anni ’80, ed è cresciuto e vive a Napoli per di più, Ferito a morte è ciò che nel Rinascimento i Signori pensavano per rappresentare un nodo essenziale delle loro vita, indole e visione del mondo: un’impresa. Un segno, un simbolo, un programma, un emblema: una forma di riconoscimento. Non posso passare in gozzo sotto Palazzo Donn’Anna o nuotare al Lido Sirene nella pausa del pranzo senza non dico pensare, ma pronunciare, come un motivo musicale del tutto naturale, le tre parole del titolo del romanzo che segnò il successo di La Capria: Ferito – A – Morte. Confesso, a questo punto, che non ho mai più letto i libri di un vero maestro del pensiero e della lingua. A tutti quelli che, come me, si sono fermati alla lettura del capolavoro, allora, Cent’anni di impazienza va prescritto subito, quasi furiosamente.

Ma anche per chi voglia intraprendere una meditata rilettura questo è un libro irrinunciabile. In primo luogo, perché vi si ritrova lo stile dell’anatra, teorizzato e praticato da La Capria, in ogni periodo, in ogni passaggio: accade leggendo di immergersi dentro le acque tranquille di un fiume che sfocia nel mare, acque della “civile conversazione” tra ironia e autoironia, virtù essenziali a uno sguardo critico e libero. Tutto ciò che La Capria scrive è come se lo stesse raccontando a voce alta, seduto in poltrona, a noi che godiamo il dono della sua ospitalità signorile: “con un linguaggio semplice si possono dire cose profonde, purché il linguaggio semplice sia riuscito a districare la complessità da cui ha preso l’avvio”. E tutto quanto viene detto scivola sul nostro intelletto come una mistura di oli essenziali talmente semplice da venire assorbita come un’ovvietà mentre, invece, la semina attuata è tanto miracolosamente ricca quanto brevi, quasi abbozzati sono i mezzi adoperati: noi stessi diventiamo anatre-lettrici che solcano placidamente le pagine, ma sotto la superficie agitano le zampette di coscienza, memoria e conoscenza, messe in moto dal racconto mistagogico del maestro.

In secondo luogo, Cent’anni d’impazienza riesce a raccontare in poche battute un intero secolo, nei suoi grandi processi di storia universale e, più specialmente, nei suoi percorsi ed espressioni letterarie. Basti solo pensare, per un verso, al sentimento che attraversa il ventenne La Capria nel secondo dopoguerra e alla rinuncia strenua degli approcci ideologici alla politica, alla storia, alla cultura e, per altro verso, al suo discorso sul valore e l’importanza per l’intellettuale, per lo scrittore, di saper riconoscere ed entrare in comunicazione col “senso comune” (che nello scritto conclusivo di Alfonso Berardinelli è messo in relazione dialettica col “buon senso”): “è un istinto indomabile della verità che tutti potrebbero condividere ma che pochi hanno il coraggio di manifestare”.

Si di un canone di ragionevolezza che implica empatia, bilanciamento, franchezza di linguaggio, ricerca di una conoscenza vera, canone anche giuridico-politico, oggi più che mai smarrito nel becerume populista o elitario, ma essenziale per il XXI secolo che, tramontate le ideologie, va edificando brutte mitologie e nuovi altari, spiritualmente ed eticamente impoveriti: “è un’idea profonda, una percezione radicata di ciò che è vero e di ciò che è falso, di ciò che è umano e di ciò che non lo è”. Infine, l’emozione che avvolge il lettore deriva dal serrato confronto che per ottant’anni La Capria ha intrattenuto con la sua città natale: a Napoli, alla napoletanità, al rapporto tra la sua e la nostra identità individuale e sociale sono rivolti pensieri di una precisione chirurgica capace di asportare gli strati di muffa cresciuta sopra una percezione di auto-isolata, beata amarezza, un’autoreferenzialità che “significa trasformare il pregiudizio in mentalità e la mentalità in destino”.

Concludo con l’unico ricordo personale, che devo a una grande amica di La Capria, Elisabetta Rasy che, qualche anno fa, mi propose un pranzo insieme con lui. Lo conobbi che sedeva in poltrona, alle sue spalle la moglie, la sempre bellissima Ilaria Occhini. Comparve un gatto nella luce che veniva dalla “bella giornata” (romana, in quel caso). A La Capria portai il manoscritto stampato di un libro di Paolo Isotta, e il maestro alzò gli occhi al cielo, lamentandone la lunghezza eccessiva (lui che si era fatto sempre più breve nei suoi). E disse che sentiva fluire via dal suo corpo la vita, ma dolcemente, un flusso inarrestabile contro cui non c’era rimedio.

Pranzammo in terrazza e l’umore di La Capria si fece sorridente. A quel tavolo c’era anche Emanuele Trevi che di Cent’anni di impazienza ha scritto un’introduzione quasi afasica, come deve essere delle parole più intime (cui segue l’introduzione di Raffaele Manica). In questo libro troverete l’anima di un grande napoletano, avvinta armoniosamente all’anima più vasta del mondo delle idee tra storia, terre e mari, troverete la scrittura umile ed elegante (perché radicata nelle cose e coraggiosa nelle scelte), che viene dalla costante osservazione di sé come metodo insostituibile di conoscenza.