Julian Assange è incarcerato alla Her Majesty Prison Blemarsh di massima sicurezza a Londra e sulla sua testa pendono fino a 175 anni di carcere per accuse di spionaggio e pirateria informatica. È un giornalista, programmatore e attivista australiano, cofondatore e caporedattore di WikiLeaks. È diventato un personaggio emblematico e rappresentativo degli anni ’10: per alcuni un impostore, per altri un potenziale Premio Nobel per la Pace per la sua attività di informazione e trasparenza. Questa (a grandissime linee) la storia di un personaggio simbolico e controverso di questi anni – e dal finale ancora aperto – che concentra paradossi e sfide e interrogativi di questa epoca: sulla politica, la Giustizia e il giornalismo.

L’uragano WikiLeaks

Il nome di Assange è indissolubilmente legato a quello di WikiLeaks: sulla piattaforma, dove ha garantito alle fonti la massima protezione informatica, ha pubblicato fino a dieci milioni di “leak” tra informazioni riservate e documenti segreti di governi e apparati militari. I documenti hanno riguardato tra gli altri casi la repressione cinese della rivolta tibetana, la repressione dell’opposizione in Turchia, la corruzione nei Paesi arabi e le esecuzioni sommarie della polizia in Kenya. L’obiettivo principale però sono sempre stati gli Stati Uniti.

WikiLeaks viene registrato nel 2006 e nel 2007 pubblica il manuale per le guardie carcerarie di Guantanamo. Al 2010 risale il cablegate: grazie alla fuga di notizie messa in atto dall’ex militare statunitense Chelsea Manning – imprigionata e poi scarcerata nel maggio 2017 – e alla collaborazione con diverse testate internazionali vengono pubblicati centinaia di migliaia di documenti sulle operazioni della coalizione internazionale in Afghanistan e in Iraq – e quindi di violenze indiscriminate anche su civili. Il materiale viene presentato in una conferenza stampa dallo stesso Assange. È a questo punto che il programmatore australiano diventa un personaggio ma anche un esempio e un bersaglio.

L’ambasciata dell’Ecuador

Alla fine del 2010 la magistratura svedese lancia un mandato di cattura per le denunce di stupro da parte di due donne svedesi. Assange replica di aver avuto solo rapporti consenzienti e si consegna alla polizia britannica. Dopo i domiciliari e la libertà vigilata il programmatore si rifugia presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra. È il 2012: Assange teme di essere estradato in Svezia e da lì negli USA. Il quotidiano spagnolo El Pais, su quei giorni, pubblicherà un’inchiesta scoop sullo spionaggio americano, tramite la società di sorveglianza UC Global, ai danni del programmatore. La cittadinanza ecuadoriana gli viene concessa dal Presidente Rafael Correa e revocata dal neo-eletto Lenin Moreno. L’11 aprile 2019 la polizia britannica entra nell’ambasciata e preleva Assange.

Stella Morris, legale e compagna di Assange, assicura a Stoccolma che il programmatore è disposto a collaborare a condizione che venga scongiurata l’estradizione negli Stati Uniti. Intanto arriva una condanna di un tribunale di Londra, a 50 settimane, per la violazione della libertà vigilata quando Assange si è rifugiato nell’ambasciata ecuadoriana mentre il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti il 23 maggio 2019 aggiunge 17 capi di accusa – per 175 anni di carcere – a quello di pirateria informatica. Il sospetto agitato dagli statunitensi è che il fondatore di WikiLeaks sia un collaboratore della Russia – anche perché nel 2013 consiglia al whistleblower dell’Nsa americana Edward Snowden di rifugiarsi a Mosca.

L’estradizione

Ancora lontana una resa dei conti, tuttavia: il 19 novembre 2020 la magistratura svedese, per mancanza di prove, abbandona l’indagine per violenza sessuale e il 4 gennaio 2021 la giudice Vanessa Baraitser, della corte penale londinese di Old Bailey, nega l’estradizione in quanto le “condizioni mentali di Julian Assange sono tali che sarebbe inappropriato estradarlo negli Stati Uniti” e potrebbero portarlo al suicidio. Baraitser ha citato i diversi rapporti psichiatrici che hanno diagnosticato ad Assange la sindone di Asperger e una “grave depressione” causata dalla reclusione. Durante le udienze che si erano svolte nel mese di ottobre 2020 tra gli effetti personali del fondatore di WikiLeaks era stata trovata e confiscata una “mezza lama di rasoio”. Washington ha annuncia subito ricorso. Il relatore delle Nazioni Unite sulla tortura, Nils Melzer, a novembre 2020, aveva rinnovato l’appello per l’immediata liberazione di Assange e per il trasferimento ai domiciliari evidenziando “tutti i sintomi tipici di un’esposizione prolungata alla tortura psicologica”.

“Non è una vittoria della libertà di stampa. Al contrario, il giudice ha detto chiaramente di credere che ci siano motivi per perseguire Assange per la pubblicazione dei documenti”, ha osservato su Twitter l’avvocato e giornalista statunitense Glenn Greenwald, fondatore di The Intercept che ha pubblicato una serie di articoli sul Guardian sui programmi segreti di intelligence a partire dalle rivelazioni di Snowden. “Julian non vede i suoi figli da ottobre – ha detto Stella Morris a Riccardo Iacona, conduttore e autore di Presa Diretta, tramissione di Rai3, per la puntata Julian Assange – Processo al giornalismo – da quando la prigione è stata chiusa per il Covid. Io non dico ai bambini che il loro padre è in prigione. Perché quando gli insegnerò che cos’è una prigione, gli dirò che è un posto dove finiscono i criminali, persone cattive che fanno cose cattive, non gli uomini buoni che hanno fatto cose buone. È in una cella di nove metri quadrati. Ed e lì da due anni e mezzo. Ed ora siamo arrivati al punto che ci sono solo due strade: o Julian riacquista la libertà o muore. E se muore, non è perché si è suicidato, è perché lo hanno ucciso”.

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Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.