Col processo di secolarizzazione del diritto e della morale le etiche di partito, di chiesa e di schieramento, laici e cattolici, liberali e socialisti, credenti e atei, onnivori e vegani, sono tutte quante divenute sempre più, se non categorie storiche, quanto meno visioni private del mondo: visioni che tuttavia è vietato assumere come quelle pubbliche della legge in chiave monopolistica e totalizzante. Sono concezioni del mondo accolte da gruppi che restano stranieri morali tra loro, come emerge a tutto campo nelle questioni paradigmatiche della bioetica.

In un contesto di pluralismo dei valori, infatti, solo il diritto può adottare punti di vista rispettosi delle differenze e non contrassegnati da una specifica identità ideologica che sarebbe ad esso vietata da principi superiori. È vero dunque, oggi, che solo il diritto può rappresentare ormai l’etica pubblica. Ma poiché le leggi non obbligano in coscienza, e dunque formalmente non sono un parametro di moralità, se un’etica pubblica va individuata, dovrà essere ritagliata dal perimetro di ciò che è giuridicamente consentito o regolato, ma possa venire avvertito anche come doveroso moralmente. L’etica pubblica è dunque ciò che, della forma-ius, ci obbliga in coscienza. Più singolare e distorcente è la declinazione penalistica del fenomeno, che muove dalla convinzione che il diritto penale è quel ramo del diritto che ha più capacità censoria, è il più intollerante dei diritti, pur restando (in ipotesi) laico e non confessionale, non di partito o di parte.

In una situazione di assenza di parametri pubblici di valutazione morale, per disapprovare una condotta la via più sicura è di qualificarla come reato, mancando altrimenti un sistema di valori davvero eloquente o condiviso: una censura in termini non penalistici o perfino non giuridici, ha un impatto assai modesto in un sistema privo di un codice di comportamento autonomo. È diffusa la percezione che “se non è penale, si può fare”, se un certo comportamento non configura un reato, la norma-precetto che lo vieta non si avverte come un obbligo veramente vincolante. Quando una condotta integra un illecito civile o amministrativo, la relativa sanzione può essere vista come una sorta di onere: la si può metter in conto, in cassa, quale tributo da pagare se vi vuole commettere il fatto. Se la sanzione è penale, invece, la regola ha un impatto censorio assai più forte, esprimendo un divieto assoluto, il cui castigo non è riducibile a tassa. Questo dato è poi accentuato da una peculiare debolezza della politica, incapace di esprimere una propria scala di valori, un proprio codice etico. Fenomeno che in Italia ha accentuazioni specifiche.
La popolarità della giustizia penale è dovuta molto anche all’illusione forse più grande della coscienza collettiva: l’idea che il reato riguardi gli altri, che si possa normalmente non commettere.

L’esperienza del penalista dimostra invece il contrario: è inevitabile che ognuno di noi commetta (e subisca) qualche reato. Si tratta di una dimensione umana, sociale, politica di carattere universale. Occorre infatti una nuova cultura per rappresentarla e promuoverne una acquisizione pubblica. I reati più comuni, di cui a seconda delle inclinazioni tutti siamo stati autori o vittime, sono gli oltraggi, le percosse, le diffamazioni, le violenze private, le appropriazioni o i piccoli furti, alcune forme di stalking, di disturbo alle persone, di minaccia, di ricatto, di frode e di falso, di comportamento pericoloso alla guida, o di guida in condizioni alcooliche vietate, di porto senza giustificato motivo di cose o strumenti atti ad offendere la persona, di consumo con cessione di droghe, di abuso di ufficio, di reticenza in giudizio, di omissione di soccorso, di abuso edilizio, o di discriminazione per motivi razziali, religiosi, sessuali, di violazione di corrispondenza, di ricevimento di cose provenienti da reati altrui, o di complicità in reati altrui etc. L’ingiuria, gli atti osceni e il danneggiamento doloso semplice sono stati da qualche tempo depenalizzati, altrimenti vi rientrerebbero.

Nella vita privata, dalla scuola materna alla casa di riposo, nella circolazione stradale, nei luoghi di lavoro, in famiglia, nella vita pubblica, nei pubblici uffici, nelle imprese, tutti abbiamo rischiato di fare male ad altre persone violando anche involontariamente regole di prudenza, o di correttezza, e solo perché fortunati non ci è accaduto di commettere lesioni od omicidio colposi, qualche abuso o violazione di obblighi occorsi invece ad altri meno fortunati di noi. L’informazione giuridica dovrebbe dare conto che i reati, nel nostro sistema, non sono inferiori a 6000 fattispecie (una ricerca finanziata dal Ministero della ricerca scientifica di una ventina di anni fa conteggiava 5431 norme-precetto solo fuori dai codici), e dunque nessuno li conosce tutti, mentre tutti possono commetterne qualcuno senza saperlo. È dunque importante che si riconosca che nessuno è immune, nessuno è immacolato, nessuno può pensare che il penale riguardi solo gli «altri». E non sarebbe neppure necessario ricordarlo se non fosse diffusa la dimenticanza che anche i dieci comandamenti riguardano tutti come capaci di colpa, e tra questi il più universale, il “non uccidere”, che anche inteso in senso stretto è toccato alla maggior parte di noi di non violarlo perché non c’è stata l’occasione per farlo, non perché ci manca la fossetta occipitale mediana di Lombroso.

La tendenza del diritto a rappresentare l’etica pubblica ha dunque sviluppato la patologia di identificare il diritto penale con tale etica, ma a sua volta questo eccesso si è accompagnato all’illusione collettiva di riservare l’infamia penalistica agli altri, ora per interesse a usare questo etichettamento contro avversari politici (ciò che esprime l’aspetto più inquietante del giustizialismo), ora invece per una mancata percezione dell’oggettività del dato che il rischio penale è un fenomeno di massa. Questa situazione paradossale rende oggi necessario il passaggio da una democrazia penale populista, come quella che si lascia alle spalle l’anno ora trascorso, a una democrazia penale informata. La democrazia penale qui intesa non è solo quella (in un’accezione un po’ negativa) della maggioranza disinformata e telecomandata a odiare a turno i pedofili, i corrotti, gli immigrati clandestini, i riciclatori di denaro, gli automobilisti ubriachi, gli stupratori soprattutto se stranieri, gli imprenditori che risparmiano sulla sicurezza, i violenti allo stadio, gli evasori dell’Iva europea, i bancarottieri, gli hackers, i negazionisti, i giovani bulli e violenti, e ovviamente tutti gli associati per delinquere (un’imputazione alla portata di tutti, i benpensanti non lo sanno e devono apprenderlo): quella maggioranza occhiuta che ha sostenuto a lungo populisticamente i programmi legislativi e la macchina da guerra giudiziaria contro il crimine e che l’attuale scontro sui “doveri informativi” delle Procure della Repubblica vuole rimettere in gioco.

La democrazia penale informata è quella che garantisce più conoscenze e più controllo critico, che si basa su dati controllabili di altro tipo. Non è il sapere di una parte del processo che informa unilateralmente i cittadini prima delle decisioni di un organo terzo, ma la democrazia dove la scienza condivide le conoscenze che il Parlamento utilizza nel costruire le leggi (non solo l’Air, l’analisi di impatto della regolamentazione, ma controlli di legittimità, predittività degli effetti, impiego di culture ed esperienze non giudiziarie, attenzione al conflitto sociale e alle cause che favoriscono il delitto) e le trasmette anche ai giudici e ai media, dove la divisione dei poteri si attua attraverso una condivisione dei saperi che la limita: affinché non accada come nell’antica Cina quando l’imperatore, dalle segrete stanze della Città Proibita, esercitava almeno simbolicamente un potere assoluto sul tempo e sul peso, di cui poteva stabilire l’unità di misura. La Città Proibita quale monumento dell’inaccessibilità del Potere e del suo Sapere. Questa misura potrebbe oggi riguardare il peso della colpa e la durata della pena, due dati scarsamente accessibili allo stesso sapere scientifico.

Se si conoscesse meglio il male intrinseco della macchina della giustizia, o si conoscessero le sue inevitabili sconfitte, anche se non si manifestano in violazioni terrificanti o disumane dell’integrità dei corpi, o nell’indifferenza alle anime, la popolarità di quella macchina da guerra sarebbe minore, e ciò le farebbe solo bene, rendendola più controllata e attenta, più umana, e anche la retorica della giustizia, e la celebrità di alcuni suoi attori, si dimostrerebbero spesso patetiche e ingannevoli. Un sano ridimensionamento di quelle illusorie aspettative potrebbe solo giovare a ridurre l’uso populistico dell’informazione, che costituisce uno dei mali della società contemporanea.