1. Cliccocrazia. Spid-democracy. Referendum pret-a-porter. Democrazia fai-da-te a chilometro zero. Si sono sprecati i calembour per dare un nome al terremoto provocato dalla digitalizzazione delle sottoscrizioni referendarie. Dietro i giochi di parole, emerge un diffuso allarmismo: l’uccisione a colpi di mouse della democrazia liberale e rappresentativa, soppiantata da un’inedita, piramidale democrazia digitale: totale disintermediazione politica e sociale alla base, massima concentrazione al suo vertice istituzionale. In breve: un «inasprimento della torsione populista in atto nel sistema politico» (Pallante). Davvero è così? Siamo realmente davanti a una «riforma costituzionale a Costituzione invariata» (Vassallo)?

2. Scenari simili scontano un equivoco di fondo: la firma digitale non aumenta le possibilità di riuscita dell’iniziativa referendaria. Puoi raccogliere a colpi di click anche un milione di sottoscrizioni su un quesito, ma ciò non assicura né che sarà sottoposto al voto né che uscirà vincente dalle urne. È vero, mai era accaduto che la raccolta firme si risolvesse così rapidamente. Oltre 500.000 per il referendum sulla depenalizzazione della cannabis, in soli sette giorni, sono un autentico blitz: democratico secondo i promotori; potenzialmente eversivo per i detrattori. Ma tutto ciò, collocandosi nella fase iniziale del procedimento referendario, si risolve in un’inedita forma di partecipazione diretta, non di democrazia diretta. Quel quesito, per tradursi in decisione politico-normativa, dovrà attraversare diversi semafori, solo il primo dei quali diventa verde grazie al numero di sottoscrizioni raccolte: il controllo di legittimità in Cassazione. Superato questo, la strada resta tutta in salita e l’arrivo al traguardo dipende più dal Parlamento che dal Comitato promotore.

3. Le Camere, infatti, conservano la propria permanente potestà legislativa sull’oggetto del referendum, lungo tutto il relativo procedimento ed anche dopo l’accoglimento della proposta referendaria. Possono usarla per sventare il voto popolare, anticipandone l’esito abrogativo. Oppure per dare risposta alla domanda referendaria, innovando la disciplina ipotecata dal quesito popolare. Il referendum innesca così una dialettica con il Parlamento, la cui centralità non è erosa né soppiantata. Semmai spronata a tradursi in scelte politico-legislative troppo spesso eluse. Per dire: su taluni dei temi referendari odierni (separazione delle carriere, eutanasia, depenalizzazione della cannabis) giacciono in Parlamento altrettante proposte di legge di iniziativa popolare – sottoscritte con la biro, e non a colpi di click – il cui esame non è mai iniziato o si è subito interrotto. È un’accidia legislativa non estranea al successo dei quesiti referendari in campo, a conferma che «quel che accade non è un attacco all’istituzione, ma un esito della sua debolezza» (Villone).

4. Eppure – si dice – una malsana bulimia referendaria è certamente agevolata dalla rapidità della firma digitale, che renderebbe tutto troppo facile. Calma e gesso. Come illustrato bene da Giulia Merlo (Domani, 29 settembre), la procedura telematica è più complicata di quanto si favoleggi. Richiede un’infrastruttura complessa. Comporta costi economici elevati (1,50 euro a firma digitale, che può salire a 3,50 in caso di acquisizione di dati ulteriori). Non esonera dagli oneri, previsti dalla legge, di acquisizione dei relativi certificati elettorali. Il tutto a carico dei promotori. «Chi dice che è facile “fare” un referendum online non sa di cosa parla» (lamenta a ragion veduta Marco Perduca, presidente del Comitato referendario per la depenalizzazione della cannabis). Di più. Per via referendaria non tutto si può fare: i limiti di ammissibilità fissati in Costituzione sono lì per questo, e vengono presidiati dalla Consulta con una severa discrezionalità che la dottrina non esita a ritenere addirittura eccessiva. E ancora. Il referendum in sé è strumento che sconta evidenti limiti funzionali, in ragione della sua natura comunque abrogativa: anche quando manipolativo, infatti, il quesito non può che operare su disposizioni esistenti, né può produrre un’innovazione «del tutto estranea al contesto normativo» originario (cfr. sent. n. 36/1997). Ritorna così la feconda dialettica tra referendum e legge parlamentare: il primo cancella o, al più, sagoma la normativa vigente; la seconda modella compiutamente l’esito abrogativo popolare, coordinandolo con le norme preesistenti.

5. Molti commenti, invece, hanno preferito andare al sodo: quante adesioni online saranno capaci di acquisire quesiti sovranisti, anti-immigrati, anti-sociali, anti-diritti civili? I conati di anti-politica che abitano la rete troveranno così un facile canale istituzionalizzato, un taxi per arrivare direttamente all’intero corpo elettorale. Anche qui si confondono causa ed effetto, accreditando falsi automatismi. Quesiti simili arriveranno alle urne (legittimamente, piacciano o meno) non perché sottoscritti digitalmente, ma solo se costituzionalmente ammissibili e perché il Parlamento non li avrà disinnescati prima. Sarà allora, nella campagna referendaria, che andrà abbandonato il distanziamento sociale della firma digitale, per tornare ad agire politicamente: nelle piazze, nei dibattiti, in ogni sede di confronto tra le ragioni del sì e del no al quesito. Si badi: ciò vale soprattutto per il Comitato promotore perché una minoranza, per quanto capace di raccogliere digitalmente le firme necessarie, dovrà poi riuscire nell’impresa di farsi maggioranza nelle urne. E per riuscirci, dovrà innanzitutto trasformare le firme digitali, da «flussi (momentanei e, talora, impulsivi) di intenzionalità» (Panarai) in adesioni consapevoli e in militanza contagiosa.

Non è detto, peraltro, che l’inflazione in una stessa tornata referendaria di molti quesiti, facilitata dalla digitalizzazione delle sottoscrizioni, ne agevoli il successo. Si può essere favorevoli ad alcuni e non ad altri. Se informato, l’elettore è capace di esprimere un voto consapevole, differenziandolo (come nel 1993: 12 referendum, 5 approvati, 7 bocciati). In passato, l’artificiale moltiplicazione dei quesiti ha disincentivato la partecipazione, decretando l’invalidità di 24 referendum per mancato raggiungimento del quorum. E come c’è quesito e quesito, così non tutti i promotori hanno la stessa credibilità: un conto è l’iniziativa referendaria dal basso, su temi trasversali capaci di aggregare una maggioranza elettorale che non ha voce né ascolto in Parlamento; altro è un pacchetto di quesiti promossi da forze politiche che siedono in Parlamento o addirittura nel Governo.

6. Emerge così il vero problema. Fino ad oggi, l’arco temporale tra l’approvazione della legge e la sua sottoposizione a referendum tramite un’impegnativa mobilitazione politica, assicurava una giusta distanza dallo scontro parlamentare. Con la firma digitale non è più così. Il rischio potenziale è l’automatismo referendario, all’indomani della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge, su iniziativa delle forze parlamentari vincitrici o sconfitte: le prime per plebiscitarla, le seconde per contrapporre alle Camere il popolo sovrano. In entrambi i casi il referendum, da correttivo della forma di governo, si trasformerebbe in «un pezzo del gioco politico-partitico» (Adinolfi) nelle mani di chi già ha facoltà e potere d’intervento nelle decisioni parlamentari. Abbiamo già conosciuto, in passato, «la stagione partitica del referendum» (Barbera-Morrone, La Repubblica dei referendum, il Mulino, 2003, pp. 83 ss.) ma mai a ciclo continuo, come la tecnologia digitale consentirà in futuro. Questo lo scenario possibile: una versione 2.0 del pericolo – segnalato dalla Corte costituzionale fin dalla sent. n. 16/1978 – che il referendum si trasformi «in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia».

7. La firma digitale, dunque, è potenzialmente esplosiva. Come la dinamite: può far saltare in aria tutto, oppure può servire per scavare nuove gallerie di comunicazione tra cittadini e Parlamento. La sfida va raccolta, anche perché indietro non si torna. Nel 2022, anno anteriore alla scadenza delle Camere, non si potrà depositare alcuna richiesta di referendum. Tocca al Parlamento capitalizzare questa tregua temporale per valutare tutte le implicazioni della scelta fatta con l’approvazione all’unanimità dell’«emendamento Magi», evitando di banalizzare la “seconda scheda” senza snaturarne l’essenziale funzione contromaggioritaria.