Sylvie Goulard, già europarlamentare e collaboratrice di Romano Prodi nel periodo della sua presidenza della Commissione (2001/2004) ci consegna un interessante saggio dove si misura con un tema di grande attualità: l’allargamento dell’U.E. come deriva incalzante e persino ineludibile su cui sembrano convergere da tempo i leader del vecchio continente più di quanto siano stati e siano tuttora impegnati al consolidamento dell’U.E.

L’autrice pone una questione procedurale ed enfatizza la sua propedeuticità rispetto all’ingombrante assillo della crescita numerica dei Paesi membri dell’Unione: fondamentalmente il tema riguarda l’aspetto identitario di un rassemblement di quasi 400 milioni di abitanti degli attuali 27 Stati membri che dovrebbe essere da tempo la principale preoccupazione dei governi avvicendatisi nei Paesi che sono parte dell’U.E. Senza o con la Turchia si passerebbe infatti a 36 o 37 Stati membri.

Il quesito che pone l’autrice – come si intuisce dal titolo del libro, “Grande da morire” – è se possano essere perseguiti insieme due obiettivi reciprocamente complementari: l’allargamento dell’U.E e la speculare pre- condizione della preventiva messa a punto di un “progetto comune e condivisibile”. I governi sembrano da tempo invece più preoccupati dell’estensione quantitativa come alternativa al caos e alle pressioni di ingresso nell’U.E. Se la questione non è sommativa ma identitaria, utile e qualitativa non devono essere interpretare come remore o titubanze le valutazioni di opportunità circa la costituzione di un’Europa extra-large: l’esempio di Cipro, in parte occupata dalla Turchia o quello delle reciproche rivendicazioni nazionalistiche tra Serbia e Kosovo, fanno riflettere sul fatto che si corre il rischio di importare instabilità in Europa, più che esportare stabilità.

Gli ingressi nel corpaccione europeo non sono un processo di aggregazione tout-court poiché la molteplicità dei contesti e delle tradizioni depone per una metabolizzazione graduale e partecipata. Scritto a gennaio, il libro tiene conto dell’elezione di Trump ma non delle successive e disorientanti sue prese di posizione: sul conflitto russo-ucraino e sull’Europa stessa. Se Trump abbandona l’ONU e mette in discussione la NATO ciò non è irrilevante rispetto al seguito che ci attende. The Donald si schiera con Putin contro l’Europa, ed ecco allora che il problema dei confini, delle adesioni e dei trattati suscita ulteriorità che i singoli Stati europei non possono affrontare da soli e pone un preciso interrogativo: è l’U.E. in grado di condividere al suo interno risorse istituzionali, rappresentative e di difesa?

Se si potesse riavvolgere il nastro della Storia la risposta migliore potrebbe essere l’ideale di Jean Monnet, padre fondatore dell’Europa: ‘Uniamo degli uomini, non coalizziamo gli Stati’. Ci troviamo tuttavia di fronte ad una situazione drammatica: gli ombrelli dell’U.E. e della NATO devono essere aperti senza indugi a protezione di Kyiv e di un popolo massacrato da una guerra criminale. Le frammentazioni originariamente radicate e mai del tutto rimosse tra gli stessi Paesi fondatori dell’U.E. riducono il dibattito attuale alla retorica dei buoni propositi, ‘fanno passare sotto silenzio gli sforzi che devono fare, al massimo si limitano a menzionare la capacità di assorbimento, come se l’Unione Europea non fosse altro che una banale spugna”.

Ciò che conta è il potere negoziale: Europa ed U.E. sembrano esserne scarsamente dotate, non si materializzano azioni condivise foriere di incisività, le frammentazioni e le sfumature prevalgono sugli intendimenti comuni necessari. La Dichiarazione di Schuman del lontano 1950 conserva la sua attuale rilevanza: “La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano”. Ora l’U.E. è parte integrante delle potenzialità latenti e dei pericoli incombenti. Sylvie Goulard pone un interrogativo che reclama un’urgente risposta: se sia più utile perseguire l’obiettivo principale dell’Europa XXL come somma di Stati e di diplomazie o se invece sia necessario edificare un fortilizio di valori condivisibili in nome dei popoli e della suprema difesa della democrazia.