Il Parlamento può istituire commissioni di inchiesta che indaghino su tutto, persino sulla mafia o sulle stragi, purché non si tocchino i rapporti tra politica e magistratura. O meglio, per chiamare le cose con il proprio nome, l’uso politico della giustizia. Su questo, la commissione non s’ha da fare, i magistrati lo dicono a gran voce. Perché, come diceva un vecchio avvocato veneto, le toghe sono come i “porsei”, ne tocchi uno e strillano tutti. Sicuramente quel legale non voleva offendere la categoria, anche perché il maiale è un animale intelligentissimo, ma solo sottolineare il fatto che ci sono punti di ipersensibilità nel corpo dei magistrati, per cui se dai un pizzicottino a “uno”, cioè per esempio al concetto di uso politico della giustizia, scatta immediata la reazione del corpo intero. E vengono immediatamente sventolate le bandierine di corporazione, le parole magiche: autonomia e indipendenza. Nel senso che quel tipo di commissione incarnerebbe in sé un attentato alle due bandierine. Peggio che una stonatura al coro di Bella ciao il 25 aprile.

Il presidente del sindacato della magistratura Giuseppe Santalucia non fa eccezione, dice proprio quel che ci si aspetta da chi dirige, come un giorno capitò anche a Luca Palamara, l’Anm. E pensare che ci eravamo illusi. Mai che uno, anche uno solo dica che la massima virtù di un magistrato debba essere l’imparzialità. Imparzialità dei giudici, ovviamente, ma anche e persino dei pubblici ministeri, visto che non devono rispondere a nessun organo di controllo (il Csm? Che ridere..) e che sono obbligati anche alla ricerca di elementi favorevoli all’indagato. Invece no. La preoccupazione del dottor Santalucia pare essere prima di tutto che non si rimetta in discussione la storia delle inchieste e delle sentenze. Non si devono dare giudizi, cioè. E pensare che ai tempi in cui all’interno della corrente di Magistratura democratica esisteva una forte componente garantistica, il diritto all’interferenza, cioè a mettere il naso nell’attività giurisdizionale, era rivendicato a gran voce. Persino per le toghe e quindi per tutti. O dobbiamo pensare che l’unico che non può “interferire”, cioè dare un giudizio, ma anche esaminare è il Parlamento?

Lo spiega molto bene, il dottor Santalucia, perché non si può. E usa un termine, per dire che nella testa di chi propone la commissione c’è già una ricostruzione precostituita dei fatti, che da lui non ci saremmo aspettati: farlocca. Ricostruzione farlocca, è scritto proprio così nel suo comunicato. Ora, poiché la fonte è piuttosto autorevole, crediamo di fare cosa utile non solo ai parlamentari che hanno preso l’iniziativa di questa inchiesta, ma anche ai tanti giudici e pm che si sono dichiarati d’accordo, di spiegare, con l’uso di un vocabolario, che cosa pensa di loro il presidente dell’Anm. Farlocco: «Si tratta di una voce di origine gergale, non dialettale, in quanto usata in ambito carcerario e dagli scippatori per riferirsi alle potenziali vittime…». Cioè ai polli da spennare. Senza scomodare Benedetto Croce per sapere che la forma è sostanza, e che la scelta di una parola non è casuale, se questo è il rispetto che il sindacato delle toghe ha per il Parlamento, altro che di commissione d’inchiesta c’è urgenza…

Anche la corrente di Area, quella della sinistra più conservatrice e corporativa, non si tira indietro, e dopo aver qualificato Il libro Il Sistema di Sallusti e Palamara come un instant book pieno di mistificazioni, se la prende persino con «opinion leader di peso (che) ne legittimano l’opera e le finalità». Se non sono fischiate le orecchie al giudice emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese. Nessuno di loro però entra mai in argomento e spiega il paradosso italiano che oggi vede un processo debolissimo contrapposto al grande potere della magistratura. Ed è proprio di questa discrasia che potrebbe-dovrebbe occuparsi una commissione d’inchiesta. Invece succede che il settimanale L’Espresso esca con un’inchiesta sui “Magistrati sfiduciati”, quasi come se fosse responsabilità della politica, e non del loro modo di condurre inchieste e processi, se la fiducia dei cittadini nei loro confronti è oggi sotto zero. E il direttore della Stampa Massimo Giannini, che ha la ghiotta occasione di intervistare la ministra Marta Cartabia e di trascorrere, come lui stesso scrive, oltre due ore con lei, spreca l’occasione come se si fosse trovato seduto su un divano di casa Bonafede.

Non solo non tocca le corde di colei che fin da quando era alla Corte costituzionale aveva espresso la propria sensibilità nei confronti dei principi fondamentali sulla presunzione di innocenza e il reinserimento dei carcerati, e sull’ergastolo fino a quello ostativo, ma mostra di essere rimasto fermo alla Repubblica delle dieci domande. Quindi il suo principale quesito è: «Cartabia ci crede davvero? È davvero convinta che si possa riformare la giustizia e raggiungere una tregua alla “guerra dei trent’anni” in un governo votato da Berlusconi e Salvini?».

Massimo Giannini almeno è sincero. Lo dicano chiaramente allora anche i sindacalisti della sinistra conservatrice e reazionaria delle toghe, che il problema è quello. E che una commissione d’inchiesta che abbia la curiosità di trovare anche le prove di quel che ormai sappiamo, e che qualche partito politico che non è loro gradito ha da tempo denunciato sull’uso politico della giustizia, qualche tremore lo produce. Perché, quando hai ricevuto il primi pizzicottino non sai mai che cosa ti succederà dopo.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.