Dopo due giorni di vertice, centinaia di migliaia di caratteri scritti, ore di trasmissione televisive impiegate, migliaia di post e di tweet inviati, un numero indefinibile di caffè imbevibili e di bottiglie d’acqua aperte, gira e rigira si arriva sempre al solito punto: stop al diritto di veto, l’Europa già oggi funziona male, figurarsi se si allargherà, più poteri a presidente della commissione e al parlamento. La sintesi politica del Consiglio europeo che si è chiuso ieri a Bruxelles potrebbe essere fatta così. O, altrimenti, si potrebbe dire che è stata un “pari e patta” dal punto di vista dei risultati, nel confronto tra Bruxelles e l’elefante nella cristalleria, altrimenti detto Viktor Orban.

Da un lato, l’Ucraina (ed anche gli altri paesi, ad iniziare dalla piccola ma significativa Moldavia) porta a casa l’avvio delle procedure per entrare nell’Unione Europea. Oltre a Zelensky, a rallegrarsene ed a spendersela sono stati un po’ tutti, specie quella Ursula von Der Leyen che in questa due giorni si giocava la ricandidatura, che oggi appare più probabile di mercoledì. Ma anche lo stesso presidente del Consiglio, Charles Michel, che giovedì sera si è eccezionalmente recato in sala stampa per fare l’annuncio che non ha esitato a definire storico: storico un po’ perché lo è per davvero, un po’ perché era già perfettamente consapevole di dover comunicativamente anticipare la delusione sulla mancata concessione dei 50 miliardi di aiuti finanziari all’Ucraina, per ottenere la quale Orban ha dovuto esercitare il suo diritto di veto facendo rimandare a gennaio ogni decisione.

Dall’altro, Orban può spendersi nel suo Paese il fatto di non aver partecipato al voto sull’allargamento (su suggerimento del cancelliere tedesco, dicono i ben informati) e soprattutto può mostrare lo “scalpo” del rinvio a gennaio degli aiuti a Kyiv, il cui bilancio – non va dimenticato – è quello di uno stato in guerra dopo essere stato invaso dalla Russia di Putin. Due concessioni in un vertice su un tema così delicato erano troppe per Orban, fanno notare molti commentatori: spiegare entrambe agli ungheresi avrebbe indebolito la sua immagine in patria, tanto più che nelle scorse settimane lui stesso aveva annunciato fuoco e fiamme, arrivando pure a far affiggere coi soldi pubblici manifesti di una campagna pubblicitaria contro Ursula von der Leyen.

Certo, gli europeisti doc, Renew Europe in testa ma anche gli altri gruppi della maggioranza Ursula, non sono certamente soddisfatti dell’esito del Consiglio europeo. Sapere che le decisioni davvero importanti dell’Unione europea (dalla questione migratoria agli aiuti all’Ucraina, dall’allargamento alla riforma dei trattati) dipendono oggi dal possibile veto del premier ungherese, domani – con una destra che in Europa al momento sta avanzando nei sondaggi e nei risultati elettorali – chissà, non è certamente qualcosa che fa dormire sonni tranquilli. Non è un caso che il presidente Macron abbia messo le mani avanti, dicendo di aspettarsi che Viktor Orbán nei prossimi mesi, dato che ci sono “interessi legittimi” ma anche “doveri”, si comporti “come un europeo”.

Non è anche un caso che ieri al premier belga Alexander De Croo sia scappata una battuta che ha fatto infuriare Budapest: “o prendi parte alla decisione e quindi sei d’accordo, o dopo devi solo tenere la bocca chiusa”. Non è un caso perché, in fondo, Macron e De Croo hanno detto qualcosa che pensano tutti: i veti di Orban – tra quelli minacciati e quelli esercitati – costituiscono un problema serissimo che va affrontato quanto prima, specie visto che parliamo di questioni geopolitiche che pungono nel vivo tanti stati. Perché è l’Ucraina ad avere l’aggressore in casa, ma altri Paesi l’aggressore lo hanno alle porte: basti pensare alla Finlandia che chiude i valichi di frontiera con la Russia, o alle repubbliche baltiche che vivono con l’incubo di un vicino ingombrante. O, ancora, perché se l’UE non è in grado di affrontare la sfida migratoria, questo incide nel vivo i paesi veramente di frontiera come sono Italia, Grecia e Spagna ed un po’ meno l’Ungheria, anche se è tra le prime a scalpitare.

Insomma, il tema delle riforme dell’Unione è sul tavolo oggi e lo sarà ancora di più nell’imminente campagna elettorale. Non è stato all’ordine del giorno di questo consiglio europeo, non ci sarà di quello prossimo, ma prima o poi ci dovrà andare. Salvo pensare che si possa continuare a fare finta di nulla con l’elefante nella cristalleria. Tanto più che gli elefanti, nei prossimi anni, visti sondaggi e risultati elettorali, potrebbero essere più di uno.

Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva