Donald Trump, con il suo fiuto per il colpo a effetto, ha trasformato il crollo del dollaro in una bandiera da sventolare. Non un errore, ma una strategia. Da febbraio il biglietto verde ha perso il 15% contro l’euro, evocando i giorni lontani, prima della grande crisi finanziaria, quando il cambio euro-dollaro danzava intorno a 1,50. Difficile che si torni lassù, ma un 1,20 è a portata di mano. E per Trump questo è oro colato. Al centro della scena c’è il grande squilibrio commerciale tra Stati Uniti ed Europa, figlio di un euro debole, quasi un relitto della crisi dell’Eurozona. Allora, i Paesi europei, Germania in primis, giocarono la carta dei surplus di risparmio, una mossa che ha incatenato l’euro a un valore inferiore al suo potenziale. Una moneta sottovalutata che favorisce le esportazioni europee e mette in difficoltà gli Usa, costretti a inseguire un equilibrio commerciale che sembra un miraggio.

La svalutazione del dollaro

La svalutazione del dollaro? È una mossa da manuale di guerra economica: un 15% di “dazio” sulle importazioni e un 15% di spinta per le esportazioni americane. Altro che tariffe doganali, che colpiscono solo i beni in entrata e fanno infuriare i partner. Un cambio svalutato è un’arma a doppio taglio, che agisce su import ed export senza che nessuno gridi allo scandalo. Un mini “patto di Mar-a-Lago” che si scrive da solo, senza bisogno di vertici o diplomazie. I mercati valutari, freddi come un calcolatore quantistico, non si lasciano sedurre dalle emozioni. Seguono la legge della domanda e dell’offerta, con un occhio alle aspettative future. Gli Stati Uniti vogliono ridurre importazioni e deficit pubblico? I partner commerciali rispondono diversificando le riserve valutarie. Ma non c’è panico: niente fughe di capitali dagli Usa, i flussi di investimento restano stabili, come un lago senza onde.

I mercati tremano

Poi c’è la saga di Jerome Powell, il capo della Federal Reserve che Trump vuole silurare. Politicizzare la Fed? I mercati tremano, temendo un dollaro ancora più fragile. Ma è un fuoco di paglia. La governance delle banche centrali sta cambiando ovunque, non solo a Washington. L’inflazione, con le sue radici globali, non si piega ai capricci di un solo Paese. L’iper-globalizzazione aveva consacrato l’indipendenza delle banche centrali come un dogma. Oggi quel dogma vacilla, eroso da un mondo che non crede più nelle istituzioni intoccabili.

Il quantitative easing, quella pioggia di liquidità che ha inondato i mercati, ha incrinato il mito dell’autonomia monetaria. Per reggere, l’indipendenza delle banche centrali avrebbe bisogno di un consenso ampio, che ormai è un ricordo. Durante la crisi dell’euro, la Bce era il faro che guidava l’Europa nel buio. Oggi? Non è che l’Europa sia diventata un modello di efficienza. È che le banche centrali, da Francoforte a Pechino, sono sempre più ostaggio della politica. L’assalto di Trump alla Fed potrebbe fare rumore, ma non cambierà i tassi di cambio nel lungo periodo. E non sarà un fenomeno solo americano.