Le condoglianze della Cina sono arrivate solo 24 ore dopo la morte di Papa Francesco, mentre i media hanno quasi oscurato la notizia. Pechino ha deciso di parlare solo ieri e attraverso il portavoce del ministero degli Esteri, Guo Jiakun. Una dichiarazione giunta nella consueta conferenza stampa quotidiana e in cui il messaggio è apparso a molti osservatori anche piuttosto scarno. “La Cina esprime il suo cordoglio per la morte di Papa Francesco” ha detto il funzionario, aggiungendo che “negli ultimi anni, Cina e Santa Sede hanno mantenuto contatti costruttivi e avviato scambi proficui e la Cina è disposta a collaborare con la Santa Sede per promuovere il continuo miglioramento delle relazioni sino-vaticane”. Parole che esprimono il senso di incompiutezza nei rapporti tra Pechino e Vaticano. E questo nonostante l’elezione di Jorge Mario Bergoglio.

Il Papa gesuita

Papa Francesco, il pontefice venuto “dalla fine del mondo”, non ha mai nascosto di avere la Cina tra i suoi grandi obiettivi. Da un lato, perché non era europeo, ma sudamericano; dunque scevro da quell’appartenenza all’Occidente che in qualche modo poteva rappresentare anche un ostacolo di retaggio culturale. Dall’altro lato perché gesuita, quindi erede di quella tradizione che aveva fatto proprio della Cina uno dei punti di arrivo della grande missione dell’ordine fondato da Ignazio da Loyola. Infine, perché oltre alla persona di Francesco, la Chiesa ha da tempo compreso l’importanza di mettere radici in Asia. Tanto che già Giovanni Paolo II, nel suo viaggio del 1996 a Manila, nelle Filippine, si rivolse ai giovani asiatici dicendo che se “nel primo millennio la Croce è stata piantata sul suolo d’Europa” e “nel secondo su quello dell’America e dell’Africa”, adesso sarebbe stato necessario “pregare che nel terzo millennio cristiano in questo vasto e vitale continente vi sia un grande raccolto di fede da mietere”.

La strada complicata e i tre punti di divergenza

La strada quindi sembrava tracciata. Ma è una strada che, almeno nella direzione della Cina, è apparsa molto più complicata di quanto forse Francesco si aspettasse. Tre almeno i punti di divergenza. La nomina dei vescovi, il riconoscimento di Taiwan, che per la Santa Sede rappresenta un elemento costante della propria politica estera, e il rispetto delle minoranze, certamente poco amate dal Partito comunista cinese, nonostante professi la libertà di culto e l’uguaglianza dei suoi cittadini. L’elezione di Francesco indusse molti osservatori a credere che qualcosa stesse per cambiare. E alcuni segnali sembravano andare in questa direzione. Nel 2014 sono arrivate le prime voci di lettere tra il Papa e il presidente cinese Xi Jinping. Quando all’aereo del Santo Padre fu permesso il sorvolo dello spazio aereo cinese, Francesco inviò al Dragone un saluto e una preghiera “per la pace e la felicità”. Nel 2018 è stato sottoscritto tra Pechino e la Santa Sede un “accordo segreto” e tecnicamente “provvisorio” sulla nomina dei vescovi, prorogato per altri quattro anni alla fine del 2024, che fa sì che la Cina riconosca il ruolo del pontefice e la Santa Sede riconosca, di fatto, i vescovi nominati da Pechino.

Il dialogo sbilanciato, l’incontro mai avvenuto

Un accordo che ha sollevato preoccupazione e rabbia da parte di segmenti interni alla Chiesa e anche da parte di Taiwan e Stati Uniti, ma che ha certificato quella volontà di Bergoglio di arrivare in qualsiasi modo al dialogo con la Repubblica popolare. Anche con un dialogo che, di fatto, è apparso sbilanciato ai più critici in favore del Partito comunista. Francesco, in questi anni, ha quasi “assediato” Pechino. Ha viaggio ai suoi confini, ha creato cardinali in Asia, ha scelto di visitare la Mongolia, un Paese con una minuscola comunità cattolica, quasi per lanciare un nuovo segnale di dialogo alla vicina superpotenza asiatica. Ma il vero incontro, quello cercato a ogni costo dal papa argentino, non c’è mai stato. Francesco non è riuscito a visitare la Cina. E Xi non ha mai incontrato il pontefice nemmeno durante le sue visite in Italia o in contesti in cui era possibile anche solo un breve faccia a faccia a favore di telecamere.

L’accordo è rimasto segreto e provvisorio. La questione di Taiwan si è confermata un elemento imperdonabile per il governo di Pechino. I dubbi e il pressing degli Stati Uniti hanno probabilmente evitato gli “eccessi di zelo” della diplomazia voluta da Francesco. E il Papa che aveva definito la Cina “una promessa e una speranza per la Chiesa” non è riuscito a chiudere il cerchio di quella che sarebbe stata, forse, una vera rivoluzione. Geopolitica e culturale. Lasciando ora al suo successore il compito di gestire i rapporti tra Oltretevere e l’Impero di mezzo, mentre dall’America risuonano le trombe di Donald Trump e di una nuova sfida tra Occidente e Oriente.