La riforma della giustizia
Csm e sorteggio, i rumori di fondo di un racconto confuso: così l’Anm la questione più ostica per la categoria
Se si potessero ascoltare filtrandole, eliminando cioè in qualche modo il rumore di fondo, le parole che la magistratura associata va declamando in questi giorni dagli spalti più disparati, e persino inopportunamente dalle Aule della giustizia, si riuscirebbe forse a percepire che persino la famigerata separazione delle carriere non è l’obiettivo primario dello schieramento di forze che contrasta la riforma costituzionale c.d. Nordio; perché quell’obiettivo passa idealmente in secondo piano rispetto all’altro incisivo profilo costituito dal sorteggio come metodo di formazione dell’organo consiliare di governo della magistratura medesima. Se si potesse, ma non si può o, per lo meno, è difficile farlo. Essenzialmente per due motivi.
Il primo è che gli argomenti per avversare la separazione delle carriere sono, per così dire, più agevoli: sarà infatti controintuitivo salmodiare che “le cose stanno meglio come stanno” quando si deve sostenere che l’arbitro e una delle due squadre possono ben originare dalla stessa città, ma resta comunque più semplice agitare gli spettri del pubblico ministero sotto scacco del governo e del pubblico ministero-sceriffo o declamare da ogni megafono quella impalpabile e reboante idea della “cultura della giurisdizione” piuttosto che spiegare gli evanescenti pericoli, intrisi di tecnicalità, di un CSM, anzi due, sorteggiati. Dunque, è perfettamente comprensibile che il discorso di ANM – che oggigiorno non è più diretto alla politica o agli operatori del settore, ma al cittadino elettore che si avvicina al voto referendario – enfatizzi il tema più “semplice” della separazione, lasciando in ombra la questione più ostica, ma di effetto più immediato e dirompente per la categoria.
E questo ci porta al secondo motivo: anche stavolta, piuttosto che spiegare le ragioni della riforma, magari ponendo un onesto accento sulle cause che la hanno determinata, la tendenza è quella a squadernare argomenti per non farla, puntellati da paragoni – ce lo si consenta: improbabili – con altri organi consiliari, magari dell’avvocatura, che ha l’imperdonabile colpa di aver voluto, stimolato e sostenuto questa epocale riforma dell’ordinamento giudiziario. Visto che non possiamo filtrare quei ragionamenti (non in poche battute almeno) o che, se volete, farlo richiederebbe ulteriori tecnicismi del tutto inopportuni e pericolosi quando si tratta di parlare di cose a chi con quelle cose non ha dimestichezza professionale, proviamo allora a ragionare in maniera diretta, ripulendo il tavolo dal più e dal vago.
C’è un organo di Alta Amministrazione, formato prevalentemente da membri della comunità a cui i suoi atti dovrebbero rivolgersi, al quale spettano, secondo l’art. 105 della Costituzione, “le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati” e che, se richiesto, può fornire pareri tecnici in ragione di quella elevata professionalità che è indefettibile requisito per accedere alla magistratura, dai cui ranghi provengono i membri dell’organo in discorso. Disegnato così, la questione “rappresentatività” non c’è o è secondaria, sia per la levatura, per principio identica, degli uomini che lo compongono, sia perché, tra gli scopi per cui l’ente agisce, non si annoverano atti di natura strettamente politica.
Tutto chiaro? Sì. Anzi, no. Perché, nel tempo, questo organo di Alta Amministrazione, oltre che essersi andato trasformando via via in una sorta di terza camera politica attraverso uno smodato uso di pareri sulle più disparate materie, forniti in via preventiva, successiva e anche in assenza di richiesta, ha finito per divenire il crogiolo di un “grumo di potere” che, persino nella gestione dei compiti costituzionalmente devolutigli, ha operato in maniera opaca e clientelare, stratificando una messe di delibere, pareri, documenti tra i quali è oggettivamente impossibile raccapezzarsi. Non diciamo nulla di nuovo: dalle colonne dell’inserto PQM di oggi le “voci da dentro” di Mirenda e Ceccarelli raccontano questa storia con impietosa lucidità.
Questa situazione complessiva, raccontata con disarmante franchezza nelle famose chat di Palamara, rispetto alle quali i fatti “dell’Hotel Champagne” non sono che un epilogo mesto e secondario, ha generato – o sarebbe meglio dire ha rafforzato – una profonda sfiducia della collettività nel sistema giudiziario del nostro paese, come con tempestività ha segnalato il Presidente della Repubblica, che, guarda caso, è pure Presidente del CSM. E questo è il punto nodale. Il sentimento che dovrebbe legare la collettività all’ordine giudiziario è la fiducia, non per le scelte operate volta per volta, ma per la rettitudine nell’esercizio della funzione, giacché quelle donne e quegli uomini hanno un compito terribile e geneticamente diverso da quello assegnato agli altri poteri: giudicare se vi sia stata disonestà del singolo in seno alla collettività; e la rettitudine, dunque, è il minimo che puoi pretendere da colui a cui hai affidato il diritto-dovere di giudicarti. E quella rettitudine, certamente appannaggio della stragrande parte dei magistrati laboriosi di questo paese, è stata offuscata da meccanismi appunto opachi che originano, se non tutti, per la massima parte dai modi di formazione dell’organo, i quali, muovendo da un associazionismo nato per altri e nobili scopi, hanno obiettivamente concentrato nelle mani di pochi le scelte sui molti. Il ragionamento, politico dunque e non personale, porta a comprendere come si sia rotto quel sentimento fiduciario che è stato nei decenni passati alla base del rapporto con la collettività e di cui lo Stato democratico non può fare a meno.
E qui arriviamo finalmente al sorteggio che, in questa prospettiva, diventa l’espressione di una razionalità polemica, prodotta dalla diffidenza circa la capacità del CSM di fare le cose come vanno fatte, a sua volta figlia del modo in cui l’organo, meglio i suoi componenti, hanno gestito i compiti loro assegnati. Recidere il legame che produce la clientela risolve evidentemente la questione.
Controindicazioni, invece, non se ne scorgono. In disparte i numerosi altri esempi della storia contemporanea, recente e passata (edificante la lettura di Astrid Zei, “Il diritto e il caso. Una riflessione sull’uso del sorteggio nel diritto pubblico”), una volta assodato che, in vista dei compiti costituzionali dell’organo, non si ravvisino esigenze di rappresentatività, diventa agevole considerare che dal sorteggio nessun magistrato ha da temere alcunché; e pure che al cittadino, investito suo malgrado da un fatto giudiziario, il magistrato “tocca sempre in sorte”. Perché la regola qui debba essere diversa, resta piuttosto fumoso.
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