La captatio malevolentiae è una figura retorica che non esiste e non potrebbe esistere, perché tende a irritare chi ascolta. Ma De Luca l’ha trasformata in un corpo contundente, e come tale la usa. Sfotte i “cinghialoni” della sua età che fanno footing sul lungomare e gli idioti che hanno la testa per spartire le orecchie, e loro, divertiti, lo inondano di “like”. Certo, c’è anche chi lo sfotte a sua volta, e di brutto, ma si sa: tutto fa brodo. A Che tempo che fa, l’altra sera, ha prima dato del “fratacchione” a Fazio, così come all’ex ministro Lupi disse che assomigliava alla figlia di Fantozzi, e subito dopo ha sfidato Feltri a chi ce l’ha più lungo, lui che già definì “mezze pippe” Di Maio e Fico. Un chiodo fisso? A confronto di quelle del governatore, le metafore di Andrea Scanzi, che potrebbe essergli figlio, cominciano a risultare vecchie e ammuffite, e le battute di Luciana Littizzetto – si è visto in diretta – pudiche e asteniche.

De Luca va dunque fortissimo sui social e in tv. Eppure, tutta questa visibilità toglie e non mette al personaggio, e il rischio che si trasformi in un boomerang è molto alto. Non perché così di solito vanno le cose. Ma perché De Luca è un caso a parte. Se altri leader populisti dicono: voi elettori siete tutto e noi ci adattiamo. Lui, viceversa, tuona: voi non capite nulla, dunque ci penso io. In lui ogni cosa è tatticamente calcolato: ogni provocazione, ogni insulto. Il governatore è un professionista della politica e della comunicazione. E in questa seconda veste è un mago non solo della parola, ma anche di tutto ciò che la rafforza o la sostituisce. Quante cose possiamo dire semplicemente con gli occhi o con le mani o variando i toni e il volume della voce, la velocità dell’eloquio o grazie alle pause e ai silenzi? Di tutto questo, De Luca sa benissimo (“ha tempi teatrali migliori di quelli dei De Filippo”, ha detto Verdone).

E ha anche studiato a fondo i maestri della leggerezza e del parlare semplice (tanto che se i più si rifanno a Italo Calvino, lui cita Paolo VI: “La gravità è lo scudo degli sciocchi”). Allora, perché è sulla scena politica da quasi cinquant’anni, ha attraversato la prima, la seconda e la terza repubblica (quella pentastellata), ha fatto della sua Salerno un modello amministrativo ed è sceso in campo contro il Coronavirus vietando l’impossibile pur di limitare i contagi; perché se ha fatto tutto questo non è ancora riuscito a sfondare il tetto che lo costringe a volare basso? Probabilmente, perché non possiamo dire di lui ciò che Cacciari, con toni assai convinti, dice di Zaia. Il governatore leghista del Veneto, spiega il filosofo, “ha un talento per la mediazione, il compromesso, è modesto e ha la capacità di stare al suo posto: non gioca ad apparire, non fa il presuntuoso…”. Un altro mondo.

E questo potrebbe spiegare anche perché, nell’ultimo studio sull’indice di gradimento dei leader più in vista, curato da Ilvo Diamanti, Zaia è l’unico politico che continua a guadagnare consensi, anche in questa fase dell’emergenza sanitaria, e De Luca neanche compare. Non c’è, non perché non sia sufficientemente noto, ma perché non è un leader valutabile nazionalmente. De Luca, insomma, è popolare ma non nazionale. C’è, ma non pesa quanto potrebbe e dovrebbe. Ed è così anche nel Pd, dove è temuto più che ascoltato. De Luca diverte, incuriosisce, provoca reazioni forti di odio e di ammirazione, ma il suo tatticismo è palese e il suo pensiero – paradossalmente, vista la sua personalità e la sua formazione culturale – resta un pensiero “debole”, segnato da un irrisolto conflitto tra essenza e apparenza, tra realtà e finzione. Di conseguenza, De Luca non riesce a riformare il Pd e il Pd non riesce a “nazionalizzare” De Luca. Un blocco fatale. Ma l’emergenza-Coronavirus potrebbe costituire un’ultima occasione per entrambi: per il partito e per il governatore.