La guerra continua ma l’esito è segnato
Dal cappio in Parlamento alla svolta garantista di Di Maio: storia di 28 anni di giustizialismo
Era il 16 marzo 1993. Il giorno dopo Mino Fuccillo commentava l’accaduto su Repubblica con un articolo dal titolo memorabile “Sotto il segno della forca”. Raccontava dell’esibizione, in aula, a Montecitorio, di un nodo scorsoio che minaccioso un deputato brandiva contro i propri avversari. Argomenta Filippo Facci nel suo libro più recente, che l’ultimo giorno della Prima Repubblica coinciderebbe con il 30 aprile di quell’anno, segnato dal lancio delle monetine contro Bettino Craxi all’hotel Raphael. Può darsi. Però è anche vero che in quel 16 marzo 1993 si materializzava e si rendeva trucemente visibile un sentimento di rancore che ha poi contaminato in profondità la società italiana. Ha preso corpo una rabbia inesorabile che ha voluto assegnare alla giustizia il compito di consumare una spietata vendetta collettiva.
Come e perché questo sia avvenuto è difficile dirlo. Certo se partiti, sindacati, gruppi organizzati non intercettano più la speranza di cambiamento di una società, la scorciatoia è dietro l’angolo; il sentimento di giustizia trasmuta in cieco rancore e le manette diventano la via più semplice per appagare ogni sete di rinnovamento e di equità. Una valvola di sfogo inevitabile e, alla fine, incontrollabile che ha invocato il processo esemplare, la rapidità, il tratto inesorabile, l’umiliazione del reprobo come riscatto per la moltitudine dei deboli. Forse, forse quel 16 marzo 1993 il giustizialismo, nella sua declinazione più dura e intransigente, si è disvelato e ha preteso una duratura legittimazione innanzi al fallimento della politica e della rappresentanza; ha coagulato un consenso profondo, radicato, trasversale che ha finito per spaccare gruppi sociali, élite culturali, aggregati finanziari di opposte sponde.
Una lunga stagione di sofferenze, di polemiche laceranti, di disperati colpi di mano, di errori clamorosi, di vittime innocenti, di tentativi falliti di riforma. Sino al crollo recente del “PalAmaraGate”, posto che le due vicende sembrano molto più connesse tra loro di quanto brandelli di notizie consentano oggi di stabilire. Un piano inclinato e sdrucciolevole in cui i primi a pagare un prezzo sembrano essere proprio gli epigoni di quel giustizialismo sorto dalle ceneri del 1993; coloro i quali si sono mossi per decenni, sempre più affannati, alla ricerca di simboli da idolatrare e che oggi sono sempre più frustrati dalle sgrammaticature istituzionali e comportamentali dei propri pupilli con il loro fardello di inevitabili fragilità umane e professionali. Nel 1993 Luigi Di Maio aveva sei anni. Sino a poche settimane or sono nessuno poteva immaginare che sarebbe toccato a lui, 28 anni dopo, tracciare il solco perché possa essere dichiarata la fine di quella stagione. E per giunta non si poteva supporre che lo avrebbe fatto all’apice della sua folgorante carriera politica, nella carica prestigiosa di ministro degli Esteri.
La lettera inviata al “Foglio” si iscrive, probabilmente, come un punto di svolta assai rilevante nel lungo travaglio che ha attraversato la questione giustizia nel nostro Paese. È giusto dirlo dopo tanti luoghi comuni ed esagerate ironie, è un testo fine, cesellato con cura, di grande efficacia. Ha un respiro e una densità che prescinde del tutto dall’infausta sorte toccata all’ex sindaco Uggetti – assolto dopo la forca mediatica del 2016 – e le scuse offerte all’avversario di un tempo si presentano piuttosto come l’occasione, il pretesto per la presa di posizione politicamente più rilevante.
Il riferimento nella lettera alla vicenda dell’ex ministro Guidi, costretto parimenti alle dimissioni per un’indagine finita nel nulla, o il richiamo al processo alla sindaca Raggi ripetutamente assolta evocano lo scenario di una più lunga e complessiva riflessione sul rapporto tra indagini giudiziarie e campagne mediatiche. Da questa prospettiva l’analisi del ministro Di Maio segna uno scarto decisivo e irreversibile in un fronte politico che, troppo in fretta, era stato descritto come irrimediabilmente giustizialista. Due i passaggi che meritano un supplemento di considerazione.
Innanzitutto la dimensione umana, in qualche misura interiore, che sembra ispirare l’iniziativa senza precedenti di Luigi Di Maio: «con gli occhi di oggi ho guardato con molta attenzione ai fatti di cinque anni fa. L’arresto era senz’altro un fatto grave in sé, che allora portò tutte le forze politiche a dare battaglia contro l’ex sindaco, ma le modalità con cui lo abbiamo fatto, anche alla luce dell’assoluzione di questi giorni, appaiono adesso grottesche e disdicevoli». “Gli occhi di oggi” non sono altro che gli occhi di una visione laica, democratica, mite del processo penale e della presunzione di innocenza che quel processo, con i suoi risvolti negativi, dovrebbe contrastare ogni giorno e in ogni momento dentro e fuori le aule di giustizia. “Gli occhi di oggi” sono gli occhi di chi agisce con lo sguardo rivolto al futuro e ragiona sulla possibilità che il presunto innocente possa davvero essere un definitivo innocente. È solo abbandonando lo sguardo obliquo e parziale dell’inquisitore e proiettandosi verso la fine, del tutto incerta, del processo che si può assumere una postura di compostezza e mitezza che per troppi anni è andata smarrita.
Il secondo punto è la svolta politica che si segna in questa stagione di riforme sui temi della giustizia che sembrava andare incontro a incertezze nell’opera riformatrice della sua collega di governo Cartabia: «con grande franchezza vorrei aprire una riflessione che credo sia opportuno che anche la forza politica di cui faccio parte affronti quanto prima … sono fortemente convinto che chi si candida a rappresentare le istituzioni abbia il dovere di mostrarsi sempre trasparente nei confronti dei cittadini, e che la cosiddetta questione morale non possa essere sacrificata sull’altare di un “cieco” garantismo».
La cecità e lo sguardo, un ossimoro di grande efficacia che tiene insieme le fila sottili e fragili di ogni ragionamento in tema di giustizia. Occorre avere il coraggio di guardare a ogni manetta che scatta, a ogni informazione di garanzia, a ogni intercettazione con lo sguardo sereno, mite appunto, di chi comprende che le cose potrebbero stare in altro modo; di chi ha fiducia nell’autorità giudiziaria ma che sa bene che, se ci sono tre o quattro gradi di giudizio, è proprio perché il sistema può sbagliare; di chi comprende che inneggiare alla forca mediatica non rende un buon servigio ai protagonisti del processo e alle toghe chiamate anzi a un supplemento di prudenza e di moderazione nel mix inedito ed esplosivo che si è creato tra comunicazione di massa e indagini.
Perché, sia chiaro, il ministro Di Maio il punto cruciale della questione lo ha perfettamente chiaro quando scrive «non è mia intenzione entrare in un dibattito sulla magistratura, visto che non attiene alle prerogative del sottoscritto in questo momento». Comprende bene che il problema si annida tutto nel nuovo assetto da conferire, prima ancora che al processo, alla stessa magistratura italiana. Un piccolo passo qualcuno dirà. Troppo poco o troppi tardi faranno eco altri. Ma la cittadella giustizialista ha, per la prima volta in modo così aperto e solenne, visto scricchiolare e creparsi le proprie mura. Certo ci vorrà tempo come in tutte le guerre decisive. Dopo Stalingrado era chiara la sconfitta dell’Asse, ma sono occorsi più di due anni per giungere alla vittoria. Una nuova stagione sembra possibile. Chapeau comunque la si pensi.
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