L’agire politico dei due presidenti sudafricani
De Klerk, Mandela e il filo che porta a Pannella

A 85 anni muore Frederik de Klerk, nome che oggi, forse, dice poco a tanti; per ragioni anagrafiche, ma non solo: perché su questa personalità si è come steso un velo d’oblio che non merita. È stato presidente del Sudafrica e Nobel per la pace, predecessore di Nelson Mandela: che fa uscire dal carcere dopo 27 anni. La sua presidenza segna la fine delle politiche di segregazione razziale, l’apartheid.
Per bizzarra associazione di idee, “rivedo” uno dei tributi migliori a Nelson Mandela, Invictus, di un cineasta libertario come Clint Eastwood. Un film che lo stesso Mandela amava: non racconta gli anni più drammatici e cupi, quelli della lotta all’apartheid e della lunghissima detenzione (27 anni!), piuttosto una pagina poco nota della storia sud africana, metafora del suo desiderio e della volontà che gli ex oppressi neri e gli ex oppressori bianchi imparassero a vivere insieme, in pace. Invictus racconta come in occasione della Coppa del Mondo di rugby a Johannesburg nel 1995, gli Springboks, considerati dai neri espressione dell’odiata minoranza bianca, vittoria dopo vittoria, riescono a conquistare il cuore dei tifosi, e a coinvolgere anche la comunità nera. Fino a quando si arriva alla finale con gli «All Blacks» neo-zelandesi: una trascinante partita che i sudafricani vincono.
Un trionfo, e in particolare per Mandela. Il film si conclude mostrando una folla enorme esultante, bianchi e neri che fanno festa insieme. L’uomo che ha sconfitto l’apartheid allunga il braccio per una stretta di mano che coinvolge l’intera nazione. Lo aveva ben chiarito un anno prima, nel discorso di insediamento alla presidenza: «…È giunta l’ora di rimarginare le ferite… Confidiamo che resterete al nostro fianco mentre affronteremo la sfida di costruire una società pacifica, prospera, non razzista e democratica». Mandela attua quanto auspicato – fin dal 1991 – da un campione della nonviolenza costantemente coniugata con il diritto, e troppe volte poco o nulla ascoltato, Marco Pannella: in un articolo su una piccola rivista, Il Partito Nuovo, invita a spedire in soffitta tabù ormai ammuffiti: «Noi stiamo dalla parte della perestroika sudafricana di Frederick De Klerk perché il Sudafrica è oggi il paese del continente nero nel quale anche la popolazione di colore ha il tasso di mortalità in assoluto più basso, il tasso di occupazione e welfare in assoluto più alto, e se le opposte faziosità non interromperanno la perestroika e la Costituzione continuerà a innervarsi nella società sudafricana, sarà il solo paese africano fondato sui principi dello stato di democrazia e di diritto… Stiamo dalla parte della perestroika sudafricana perché questo sarà il paese dove una classe dirigente nera prenderà in mano le redini del governo insieme a dei bianchi riconosciuti anch’essi e pienamente come “africani”… Nonviolenti e riformatori, stiamo con convinzione dalla parte della perestroika sudafricana, di quanti non si rassegnano a credere che dal dolore e dall’ingiustizia possano solo nascere altro dolore e ingiustizia».
Scrivere di De Kerk, Mandela e pensare a Pannella… ci si può chiedere: ma che c’entra? C’entra. Intanto per riconoscere che se Mandela ha vinto come ha vinto, lo ha potuto fare anche perché a un certo punto ha trovato interlocutori come De Klerk: che capiscono che un certo tempo è finito, e occorre cambiare registro. Il «fare», l’agire politico, il lascito dell’uno e dell’altro sta nell’imprescindibile nesso tra diritto e nonviolenza; nel lottare per evitare che il «vincitore» faccia sterminio del «vinto»; di una cosa Pannella ha indiscutibile merito: aver insegnato a credere «alla parola che si ascolta e si dice quando si vuole essere onesti, capiti ed ascoltati, a non credere al fucile perché ci sono troppe splendide cose che potremmo/potremo fare anche con il “nemico” per pensare ad eliminarlo». Quello che hanno fatto Mandela e De Klerk.
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