Si sente beffata, la Repubblica di Manettopoli, perché non tutti i detenuti anziani e malati mandati ai domiciliari a causa del virus sono stati ancora sbattuti di nuovo in galera. Centoundici tornati dentro, ma 112 rimasti a casa. A curarsi, ohibò! “Il carcere provvisorio dei boss”, lamenta un seccatissimo Attilio Bolzoni, il quale pare non sopportare l’esistenza dei giudici di sorveglianza e la loro “interpretazione o forzata applicazione delle leggi”. E caspita, sembra suggerire, fatevele leggere e interpretare da uno come Davigo le leggi, se no rischiate di sembrare tutti dei Corrado Carnevale, degli “ammazzasentenze”. Insaziabili, con una grande fame e sete di persecuzione, di manette, forse di pena di morte. Il fantasma che si aggira per l’Italia, che penetra nei tribunali, nelle redazioni dei giornali e in qualche segreteria di partito non è un progetto o una richiesta di giustizia, ma al contrario, voglia di vendetta, di rancore, di fargliela pagare.

Tocca alla Repubblica di Maurizio Molinari, oggi, il quotidiano che ha cambiato direttore ma non redazione, che è sempre rimasta quella delle dieci domande a Berlusconi. Quella dei moralisti solo sulla vita degli altri. Se la prendono, da vigliacchi, con un soggetto debole, il detenuto. Loro lo chiamano mafioso, noi prigioniero. Perché chi è privato della libertà, sia che stia in un carcere, sia che venga rinchiuso in un ospedale, una comunità o anche la propria casa, è pur sempre una persona soffocata dalla mancanza di aria. Un prigioniero. A volte anche mafioso, ma sempre prigioniero. Si rassegni Marco Travaglio. Lui ci prova ogni giorno nel suo piccolo, a convincerci che ogni persona incarna in sé il peccato, come a dire il reato. Ma è sempre piccolo e solo. Ma quando si muove la Repubblica di Manettopoli, sfonda alla grande. E trova subito la possibilità di contagiare tutto il mondo dell’informazione. Lo stiamo già vedendo. E già immaginiamo la prima puntata della prossima trasmissione di Giletti, con tutte le Dda-dadaumpa schierate a gridare “in vinculis, in vinculis!”.

Fossimo nei panni (ma, più che difficile, sarebbe impossibile come somigliare a una delle gemelle Kessler) del ministro Bonafede, qualche brividino lo avvertiremmo. Perché il titolo principale in prima pagina del quotidiano di ieri (“Metà dei boss ancora a casa”), sparato a freddo mentre gli altri parlano dei problemi della scuola, delle elezioni e anche della positività al virus di Silvio Berlusconi, non è solo una pallottola, è una mitragliata di kalashnikov dritta nella sua schiena. E infatti il ministro subito la piega e promette nuovi controlli, mentre le opposizioni chiedono le dimissioni. È paradossale che ci tocchi difenderlo, questo guardasigilli che pare un alieno, quanto meno perché, quando è scoppiata la pandemia, si è posto il problema delle carceri e del loro perenne pericoloso sovraffollamento. Ancora più di 61.000 detenuti in luogo dei 50.000 previsti dalla capienza degli istituti di pena. E impossibilità di applicare le regole del distanziamento in celle in cui i corpi non possono che stare uno addosso all’altro. E almeno due iniziative, una del governo, l’altra interna al ministero di giustizia, che hanno riguardato la vita nelle prigioni, parevano andare nella direzione giusta.

La prima era quella dell’articolo 123 del decreto Cura Italia, con la previsione della possibilità che la pena detentiva non superiore a diciotto mesi (o la coda finale di una più lunga) si potesse scontare al domicilio. Nobile intenzione, poi in parte arenata dalla mancanza di braccialetti elettronici, cui hanno supplito alcuni magistrati intelligenti che hanno applicato la norma anche senza braccialetti. Il secondo intervento, in linea con l’esigenza di evitare il più possibile una probabile diffusione del virus in luoghi chiusi e stretti come le carceri, è la famosa circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) che tanto rumore ha seminato nel mondo della Repubblica di Manettopoli. Che cosa recitava di scandaloso la direttiva? Chiedeva ai direttori delle carceri di segnalare all’autorità giudiziaria i casi di ultrasettantenni o portatori di gravi patologie, allo scopo di applicare il differimento della pena, indipendentemente dal reato e dal numero di anni da scontare. I giudici e i tribunali di sorveglianza hanno applicato. Con scrupolo, accogliendo o rigettando le richieste che arrivavano dai difensori dei detenuti. Qualcuno è andato (provvisoriamente) a casa, altri no.

Ma è scoppiato comunque l’inferno, schiuma alla bocca e penne intinte nelle biografi e dei peggiori tagliagole della storia. Solita identificazione della persona con il suo reato, per cui il carcerato vecchio e malato, se è anche mafioso, perde il diritto a essere vecchio e malato. Si sparano numeri sempre più alti, con titoli sempre più scandalistici, istigando l’opinione pubblica a crocifiggere i giudici di sorveglianza quasi fossero dei complici dei mafiosi. Tre di loro si videro persino costretti a chiedere al Csm l’apertura di una pratica a tutela, di cui non si è più saputo niente, in tempi di Palamara. La Repubblica di Manettopoli a un certo punto aveva persino sparato (sempre parole come pallottole): «I 376 boss scarcerati. Ecco la lista riservata che allarma le procure».

E giù elenchi e liste, con nomi cognomi indirizzi. E mancavano solo le impronte digitali. Salvo poi scoprire che, di questi “boss”, solo tre erano detenuti con il regime più impermeabile, cioè quello previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario e riservato alle persone, proprio come i capimafia, ritenute più pericolose. Ma poi chi erano questi 376? Siamo sicuri che le misure alternative fossero state applicate tutte in seguito alla circolare del Dap e non per altri motivi? Va anche detto che, di tutte queste centinaia di “boss” che hanno ottenuto nei mesi scorsi il differimento di pena e la possibilità di scontarne una parte al domicilio, non risulta che nessuno si sia dato alla latitanza, che sia scappato. Per controllare meglio il territorio, diranno sicuramente coloro che non credono nei principi della Costituzione, nel diritto alla salute e al recupero del detenuto.

Resta il fatto che, pur dopo la controriforma che, un mese dopo la circolare del 21 marzo, impose alla magistratura di sorveglianza vincoli maggiori (tra cui la consultazione del procuratore nazionale antimafia) sulle proprie decisioni, tutti quelli che poi torneranno in carcere furono trovati a casa e nel proprio letto. E neanche la defenestrazione dell’ex capo del Dap Basentini e l’arrivo al vertice del dipartimento di due procuratori antimafia della Dda e il dimezzamento dei provvedimenti di differimento pena, ancora soddisfa l’ingordigia della Repubblica di Manettopoli. Ma si, arrestateci tutti. Anzi, rompete l’ipocrisia e abbiate il coraggio di chiedere che si introduca di nuovo la pena di morte. Tanto la tortura c’è già, come dimostrano i casi dei due avvocati calabresi Giancarlo Pittelli e Francesco Stilo.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.