Ci sono ragioni per pensare che la bozza della decisione della Corte suprema americana sul tema dell’aborto, fatta trapelare e rivelata dalla stampa nei giorni scorsi, possa diventare la decisione finale che verrà resa nota verosimilmente in giugno. In tal caso, gli Stati Uniti sarebbero sulla strada di trasformarsi in uno Justizstaat, un regime politico in cui sono i giudici che decidono sovranamente del diritto alla vita e alla morte dei cittadini: dall’aborto alla eutanasia. Bisogna tener presente i passaggi essenziali della procedura che caratterizza il lavoro della Suprema Corte degli Stati Uniti. Che è molto diversa da quelle in uso nelle Corti costituzionali europee.

Dopo un dibattimento, nel corso del quale i nove membri che compongono il collegio giudicante ascoltano le parti e discutono talvolta animatamente con loro, i giudici si riuniscono a porte chiuse e votano a maggioranza sul dispositivo del caso o della controversia. Semplificando, nell’ipotesi in cui emerga una questione di costituzionalità – il che non è sempre il caso perché la Corte Suprema è il giudice di ultimo grado di ogni tipo di conflitti – ciascun giudice prende posizione a favore di una delle due parti, pro o contro la conformità alla costituzione della norma contestata. Si forma in questo modo una maggioranza. A quel punto, la regola generale è che il presidente della Corte assegni ad uno dei membri della maggioranza la redazione della sentenza (opinion). Nel caso in questione, Samuel Alito, un giudice notoriamente molto conservatore, è stato incaricato di redigere il draft della decisione sull’aborto.

Quest’ultimo non viene discusso collegialmente con gli altri membri, ma fatto circolare affinché possano essere proposti eventuali emendamenti e i dissensi della minoranza vengano redatti tenendo conto della tesi e degli argomenti espressi in quella che sarà la decisione della maggioranza. È nel corso di questi scambi, in genere scritti, fra i nove giudici, che la bozza della decisione di Alito è stata – surrettiziamente e probabilmente senza precedenti – consegnata alla stampa da uno dei collaboratori dei giudici o da un membro del personale della Corte. Quanto detto sin qui ci fa supporre che, nonostante possibili modifiche minori, è poco verosimile che la tesi di Alito venga rovesciata. Accade infatti estremamente di rado che la decisione della maggioranza sul dispositivo, la quale, come abbiamo detto, precede la motivazione da parte di uno dei giudici della maggioranza, venga poi modificata, dando luogo ad una decisione finale diversa.

Occorre sottolineare che della deriva verso un regime politico che finisce per dare ai membri della Corte suprema un ruolo predominante, non sono responsabili solo i nove giudici della Corte stessa, ma anche il Congresso e per certi versi la stessa costituzione americana. Il Congresso, in particolare, si è rifiutato sin dall’inizio della controversia sull’aborto di emanare una legge federale, valida cioè per tutti gli Stati Uniti, che ne regoli i limiti. Questi, fin dai tempi della sentenza Roe v. Wade (1973), sono stati definiti dalla Corte Suprema, che considerò a suo tempo contraria alla costituzione une legge dello stato del Texas che limitava il diritto delle donne alla interruzione volontaria della gravidanza. In tal modo, la Corte faceva valere la sua decisione al di sopra delle legislazioni e delle Corti dei singoli stati membri dell’Unione Americana. Oggi, la maggioranza conservatrice della Corte vuole capovolgere le sue precedenti sentenze, facendo strame della dottrina dello stare decisi (i precedenti), che domina la retorica dell’insegnamento del diritto costituzionale nelle law schools di oltreatlantico.

Questo rovesciamento di tutte le decisioni che più di recente hanno confermato Roe v. Wade, dipende naturalmente – oltre che dalla volontà dei rappresentanti eletti nel Congresso di decidere di non decidere – anche dal fatto che i giudici federali, inclusi dunque quelli della Corte suprema, sono nominati dal Presidente con il consenso del Senato. Se dunque, come è accaduto di recente durante la Presidenza di Trump, il Presidente e il Senato sono espressione della stessa parte politica, entrambi gli organi costituzionali preposti alla nomina dei giudici, possono scegliere e ormai designano di fatto giudici che sono molto vicini alle posizioni di parte che li individua, dopo averli selezionati accuratamente. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di persone relativamente giovani e che, dato che, come si sa, l’incarico è assegnato a vita, sono destinate a restare alla Corte solitamente per circa trenta anni. Questa modalità della nomina dei membri della Corte, che è definita dall’art. 3 della Costituzione americana, mette decisamente in questione la neutralità della Corte stessa, se questa – come nel caso presente – è dominata (sei contro tre, tre dei quali nominati da Trump) da membri di una sola sezione dello schieramento politico e diventa inevitabilmente partigiana. Il suo potere può allora andare in molti casi a scapito della giustizia imparziale e, certamente, come mostrano le ricerche sulla opinione pubblica condotte negli Stati Uniti, porta a un grave detrimento della reputazione di un organo che deve la sua legittimità all’essere, per quanto sia umanamente possibile, super partes.

Naturalmente, la neutralità di un organo come la Corte suprema non può voler dire che essa giudichi senza avere opinioni o senza preconcetti da parte dei suoi membri. Inoltre, quando esiste come negli Stati Uniti la possibilità di pubblicare opinioni dissenzienti, i giudici non hanno veri incentivi per cercare dei compromessi fra di loro. Ma, proprio per questo, la Corte dovrebbe essere costituita in modo che la parzialità venga ridotta al minimo, grazie alla scelta di membri con opinioni politiche diverse e non estreme che cercano un compromesso. Altrimenti, com’è evidente, da organo super partes, essa diventa una terza camera, che peraltro, diversamente dalle prime due che sono soggette all’elezione e al periodico rinnovo da parte dei cittadini, non è responsabile in alcun modo dinanzi al corpo elettorale.

È quello che rischia di essere oggi la Corte Suprema americana. Né si può ignorare che la nomina a vita – forse comprensibile quando oltre due secoli fa, nel momento in cui fu ideata e creata, la speranza media di vita era inferiore a cinquanta anni, mentre oggi raggiunge facilmente gli ottanta – allontani la Corte nella sua composizione – così a lungo immutata – dalle evoluzioni della società. In altre parole, i giudici e la loro maggioranza, restando così lungamente in carica, diventano un organo che rischia di divergere sempre di più dai mutamenti delle maggioranze regolarmente elette dai cittadini. Se, come è possibile o probabile, la bozza di Alito contiene l’essenziale della futura sentenza, la Corte finirà con l’imporre un ritorno verso un sistema confederale, in cui i diritti dei cittadini (oltre all’aborto, anche le leggi relative alla normativa elettorale) saranno in larga misura lasciate alle singole decisioni e regolamentazioni dei diversi stati dell’Unione.

Poiché è questo che sembra voler decidere la maggioranza della Corte: la cancellazione di una norma come Roe v. Wade, che in base alla clausola della superiorità delle norme federali si imponeva alle legislature ed alle giurisdizioni di tutti gli stati. Sicché, nel caso che stiamo considerando, le donne incinte potranno molto più facilmente interrompere la loro gravidanza negli Stati più liberali e molto meno in quelli più conservatori del Sud e del centro del paese. Con una svolta – dalla democrazia federale ad una repubblica confederale – che, pur non contrastando esplicitamente e formalmente la lettera della vecchia costituzione, tradisce certamente lo spirito dei Padri Fondatori.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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