L'aborto
La Corte Suprema degli Stati Uniti e il femminismo degli anni Settanta
La guerra mai dichiarata e mai interrotta del sesso che si è arrogato il dominio del mondo, in nome della sua “natura superiore”, ha da sempre un obiettivo prioritario, che è il controllo del corpo femminile e della sua capacità generativa. Che l’aborto sia, sotto qualsiasi cielo, per gli uomini un’ossessione, non dovrebbe meravigliare: il corpo della donna è quello che da la vita, e cure, affetto, nel momento della maggiore dipendenza e inermità, ma che potrebbe non darli, un corpo che è venuto conquistando libertà, diritti, e che comincia a non voler più essere un “corpo a disposizione”, dal punto di vista sessuale e procreativo.
Si potrebbe parlare di una guerra “sui generis”, in senso letterale: violenza di un “genere” che stenta a riconoscersi come tale, e le cui armi ancora oggi vanno dalla legge al coltello, dalla cancellazione del diritto di aborto al femminicidio. Pochi si chiedono come uscirne e chi lo fa, come il movimento delle donne, è tenuto nel silenzio o represso con la forza. Eppure, come non sono mancate grandi manifestazioni in tanti Paesi del mondo, così si è venuta formando, fin dagli anni Settanta, una cultura femminista capace di impedire che un fenomeno, che ricompare puntualmente e con sempre maggiore virulenza, quanto più si allentano i vincoli e i pregiudizi con cui ci è stato consegnato da millenni di patriarcato, venga ridotto dentro i termini della politica tradizionale.
La notizia che la Corte Suprema degli Stati Uniti potrebbe decidere di limitare il diritto di aborto, ribaltando la sentenza Roe V. Wade che lo garantiva a livello federale, non mancherà di essere portata al centro del dibattito tra conservatori e democratici, tra Trump e Biden, fatta oggetto di propaganda elettorale. È per questo che torna ancora una volta utile “muoversi su un altro piano”, come indicava Carla Lonzi, e riascoltare le voci del convegno che si tenne al Circolo De Amicis a Milano, nel febbraio 1975, restie a fare dell’aborto solo una questione di diritti, insieme a forze politiche organizzate. “Non è nel nostro interesse trattare il problema dell’aborto per se stesso. Il nostro sforzo è, invece, di legare questo tema a tutta la nostra condizione, in particolare a quella della nostra sessualità e del nostro corpo, altrimenti rischiamo di dare solo una risposta parziale che si rivolta magari contro di noi o che comunque non è una soluzione per noi (…) il ritrovarsi tra noi significa che noi affrontiamo questa tematica nei modi politici che sono nostri, e quindi con il racconto di esperienze e anche con prese di posizione che magari non hanno grande coerenza, ma riflettono quello che è il nostro pensiero e desiderio.” (Sottosopra rosso, fascicolo speciale, 1971).
Il rapporto tra il corpo e la legge, tra pratiche di liberazione da modelli interiorizzati e battaglie per i diritti, non ha mai più conosciuto, come negli anni Settanta, la tensione vitale di un conflitto aperto da una tematica che comportava l’uscita da polarizzazioni note, tra privato e pubblico, tra vissuto personale e istituzioni della sfera pubblica. Due furono allora le posizioni di fondo: una che vedeva nella formulazione di una legge che legalizzasse e rendesse assistito e gratuito l’aborto, la conquista di un diritto civile e il riconoscimento della forza delle donne; l’altra che invece non riteneva utile una riforma sociale, quale è la normativa dell’aborto, attuata da un sistema che non comprende le donne, e che perciò avrebbe preferito l’abolizione del reato di aborto, la depenalizzazione. La legge fu approvata il 25 maggio del 1978, ma la posizione critica sui rischi riguardanti l’iscrizione delle vite nell’ordine statuale è ricomparsa trent’anni dopo nei commenti di una generazione di giovani femministe, il gruppo A/Matrix di Roma.
“La maggior parte delle donne si batteva non per una legge, ma per la depenalizzazione del reato di aborto. Il ragionamento era chiaro: la legge avrebbe significato che lo Stato metteva bocca sul corpo delle donne. Così è stato, anche perché alcuni degli articoli del testo aprono di fatto all’obiezione di coscienza da una parte e dall’altra alle varie interpretazioni su quando e come inizia la vita (…) L’autodeterminazione non è più tale se si subordina all’interesse dei partiti e delle logiche parlamentari, se una volta ottenuta una legge si impiegano le energie in una lotta difensiva le cui regole sono date dalle istituzioni ospedaliere, giudiziarie amministrative (…) La lotta contro l’aborto è stata una lotta a tutto campo, di certo non liquidabile con l’idea di rivendicare e ottenere un ‘diritto’. Parlare pubblicamente di aborto ha significato anzitutto una radicale messa in discussione della sessualità e di rapporti tra uomo e donna.” (Liberazione, 21.5.2008).
Maternità e aborto sono, senza ombra di dubbio, legate a un modello di sessualità penetrativa e generativa contrassegnata, all’interno del dominio storico dell’uomo, da un carico di violenza materiale e psicologica, che non accenna a diminuire neppure in presenza di culture altamente civilizzate. Ciò nonostante, l’interruzione volontaria di gravidanza è ancora vista come “questione morale”, con riferimento alla religione, o “questione femminile”, come se non c’entrasse l’uomo e un dominio che si è imposto per secoli, e tutt’oggi, come controllo sul corpo della donna, affermazione di virilità, fissazione della donna nel ruolo di madre. L’assenza dell’unico soggetto a cui è stata riconosciuta una sessualità propria, riproduttiva e il potere di imporla con la forza, provocando gravidanze indesiderate, dovrebbe quanto meno indurre a chiedere dove sia finito l’attore primo di quello che continua ad apparire come un “dramma” con una protagonista unica.
L’uomo in realtà c’è, c’è come figlio potenziale, promessa racchiusa in quel “tu” che deve ancora divenire persona, ma che la “tutela del concepito”, prevista da una legge dello Stato italiano, ha fatto assurgere a soggetto titolare di diritti, primo fra tutti il “diritto di nascere”. E’ alla “ personalità giuridica dell’embrione”, sancita dalla Legge 40 , che fanno appello tutte le crociate contro l’aborto. Se il corpo femminile ha avuto bisogno di essere confinato in un ordine naturale, sottoposto a controlli di ogni sorta, fatto oggetto d’amore e di insieme di violenza, è perché nella memoria dell’uomo-figlio è rimasto il luogo di una irripetibile fusione e, contemporaneamente, il richiamo a una dipendenza minacciosa per la sua individualità adulta.
La nostalgia del ritorno e l’ombra di abbracci mortiferi non potevano che acuirsi e trasformarsi in una poltiglia esplosiva di odi, risentimenti, malcelata misoginia o aggressioni esplicite, nel momento in cui le donne hanno dato prova di sopportare sempre meno il destino che altri ha deciso per loro. La liberazione di un corpo vincolato per millenni alle leggi della procreazione e della sopravvivenza, ha voluto dire, prima ancora di decidere se essere o non essere madri, la riscoperta di una sessualità propria, e il legittimo desiderio di provarsi nel mondo come persone intere.
© Riproduzione riservata