Quella “bandiera bianca” che l’Ucraina dovrebbe avere il coraggio di innalzare è da giorni oggetto di interrogativi pesanti, angosciosi: ma l’ha detta così, Papa Francesco? O voleva dire altro? Voleva dire “arrendetevi” o “negoziate”? Qui si entra nel labirinto tra comunicazione, politica, filosofia: con tanto di precisazioni, correzioni, un po’ come la politica politicante – e spiace notarlo – ma è impossibile tentare di districarsi in questi meandri se non si prova a guardare più a fondo.

Intanto, c’è la questione del rapporto tra Bergoglio e la televisione (la famosa intervista sull’Ucraina è stata resa alla televisione svizzera, registrata nel pomeriggio del 2 febbraio e anticipata, dopo la sua lavorazione, il 9 marzo, l’integrale si vedrà il 20): la comunicazione veloce e disintermediata prende il posto del “testo”, con i rischi che ne possono derivare. Forse è una malintesa concezione della modernità.

«Ma questa è una caratteristica della chiesa sudamericana – ci spiega don Filippo Di Giacomo, sacerdote da 47 anni e anche giornalista e opinionista televisivo – che viene da lontano, dalla necessità di superare le grandi distanze, fin dagli anni Cinquanta quella Chiesa ha visto evangelizzatori utilizzare tv e radio, ci sono delle sette che promettono miracoli, profeti vari, patriarchi e vescovi che utilizzano le reti satellitari, e d’altronde anche Francesco a Buenos Aires aveva dato vita a una televisione diocesana… Il grande problema è che in Vaticano si stanno chiedendo cosa esattamente sia successo.

La bandiera bianca

Teniamo conto che in teoria la macchina della comunicazione conta seicento persone, costa qualche milione in più della spesa per 189 nunziature, cioè il Vaticano spende più per la comunicazione che per la diplomazia…». A maggior ragione: cosa voleva dire il Pontefice con la figura della “bandiera bianca”, come va interpretata quella frase? «Diamo anche l’attenuante che Francesco non conosce bene l’italiano, probabilmente voleva dire “dialogare” mentre per noi la bandiera bianca significa “arrendersi”. Detto questo, il cardinale Parolin ha corretto vistosamente dicendo che il passo tocca alla Russia, ma è chiaro che il problema non è lessicale ma molto più serio e profondo. Cioè il fatto che il Papa non ha capito che se vince la Russia è tutto il nostro mondo che finisce, tutta la nostra Storia di conquista della libertà, tutto un insieme di valori che scaturisce dalla fine della Seconda guerra mondiale. Lui non comprende cosa c’era dietro Adenauer che ricostruiva la Germania o De Gasperi l’Italia, quale carica morale presiedeva a tutto questo. Non era solo un fatto politico. Per questo è sempre bene tenere presente cosa significa un Papa che non conosce l’anima dell’Europa».

Il bergoglismo contro il ratzingerismo

È la lettura del bergoglismo contro il ratzingerismo dentro una diversità – o inconciliabilità? – di fondo tra due culture e due visioni del mondo in cui ancora una volta emerge la questione della Shoah come pietra angolare del mondo contemporaneo: «Lui non ha “visto” la Shoah come l’abbiamo “vista” noi europei, non ha sentito come noi abbiamo sentito certi racconti, e non capisce che l’Occidente attuale non è legato a un fatto religioso ma che ha il suo punto zero nella Shoah. L’Europa nasce su quell’orrore e dopo averlo sconfitto decide di abbandonare i conflitti: se non si parte da questa memoria storica non si ha poi la sensibilità e l’accortezza di parlare di pace in un certo modo. E si rischia di parlare contro la dottrina cattolica classica: ma insomma, San Tommaso ammetteva l’uccisione del tiranno». Vengono in mente le pagine di Emmanuel Mounier – «non si può pretendere che una nazione intera possa acconsentire a scomparire piuttosto che a difendersi da un aggressore ingiusto» – quando, contro “il pacifismo imbelle” prendeva posizione contro il Patto di Monaco che aprì la strada a Hitler. «Ma certo, sono cose che Francesco non “sente”, la sua è un’altra cultura, altro che Mounier, e infatti, come ho detto, Parolin ha dovuto fare l’ennesima correzione per fare capire ciò che la Santa Sede realmente pensa e fa. Il problema è che il Papa ha voluto “vaticanizzare” la Santa Sede tagliando il ramo su cui è seduto.

Il Bergoglio peronista

Intendiamoci, dire “pace pace pace” va benissimo ma c’è modo e modo, non si può esulare dal contesto concreto: per cui lui fa bene a parlare da Papa ma lasci fare agli uomini della diplomazia, della carità, della fede». Sembra però accadere tutto il contrario, con questo Papa “politico” che poi in realtà ha un rapporto strano con i “politici” veri, il che non rende agevole un’interpretazione del suo tipo di “politicità”. Qui don Di Giacomo si ferma un secondo a riflettere: «Lui ha sempre detto di avere un certo disinteresse per la politica, non ama la presenza delle autorità politiche. Dopodiché il Papa è di per sé “politico”. Ma anche qui va tenuto presente il suo essere sudamericano. Perché, vede, nella storia dell’America latina, diciamo da Simon Bolivar in poi, c’è sempre stata questa attesa di un caudillo che riesca a unificare quel continente: Fidel Castro o Chavez o persino Pinochet hanno incarnato questa mitica attesa…». E Peron. Si è parlato tante volte di un Bergoglio “peronista”. «Certo, anche Peron diede l’idea del capo carismatico in grado di portare l’Argentina e tutto il Sud America verso la riconquista della Dignità. Questo sfondo psicologico è importante per capire la mentalità di Francesco sul ruolo di guida spirituale che è molto differente dalla concezione nostra del compagno di strada che ci parla di Dio, che ci consola. Da cui discende una tendenza all’autocrazia che per certi versi è terrificante, basti pensare a una particolare distanza, se non disistima, verso i preti. Francesco può persino meravigliarsi dinanzi alla popolarità di un vecchio parroco di periferia». E dunque, a undici anni da quella sera umida nella quale venne eletto, che Chiesa è, quella di Bergoglio? «Mah, come disse Benedetto XVI, dopo l’autunno c’è l’inverno, e poi una minoranza illuminata farà tornare la primavera», chiude, mesto, don Filippo. Lasciando aperti gli interrogativi su questo Pontefice venuto “dalla fine del mondo” dinanzi alla Storia e alle sue attuali tragedie, al suo apostolato di pace dinanzi alle barbarie di questo tempo.