La testimonianza
Don Vincenzo, cacciato dal carcere perché chiedeva dignità per i detenuti: “Sono fascicoli, morti che camminano”

Della condizione delle persone detenute, dei suicidi, della drammatica situazione di Sollicciano abbiamo parlato con Vincenzo Russo, che è stato per molti anni il Cappellano del carcere di Firenze. Una testimonianza di ferma denuncia ma anche di speranza.
Il sistema carcerario del nostro Paese è ormai al collasso: strutture fatiscenti, sovraffollamento e quotidiana mortificazione del valore rieducativo della pena. Tu, che per molti anni sei stato il Cappellano del carcere di Sollicciano, pensi sia possibile restituire umanità al carcere e speranza alle persone detenute?
Il sistema penitenziario italiano, pur con differenze tra i vari istituti, presenta gravi criticità e, soprattutto, appare sostenuto da una visione umana, prima ancora che politica, che contraddice pienamente il dettato della nostra Costituzione. Il carcere, secondo il pensiero diffuso e dominante, deve servire per punire, vendicare, salvarci dal “cattivo” che deve pagare fino in fondo per quello che ha fatto. È una prospettiva carcerocentrica, questa, che non fa ben sperare per il futuro ma che, credo fermamente, può e deve cambiare. Mi piace un’espressione, utilizzata anche da Papa Francesco: il carcere deve avere finestre. La luce, infatti, deve entrare dentro, deve sostituire il buio di un estremo abbandono e di un tempo senza prospettive; deve essere possibile guardare fuori, avanti, per rendere concreto un domani, al termine della pena, nel quale rientrare nella vita sociale esterna con un bagaglio in più, costituito da un vero percorso di ricostruzione, di rafforzamento e di consapevolezza sulle proprie possibilità. La realtà, invece, è del tutto opposta. Varcando quella soglia si entra in un non luogo, dove la persona è annullata, perde la sua consistenza e diventa solo un fascicolo. Ad avvilirla subentrano una condizione degli ambienti ed un trattamento che hanno caratteristiche davvero inumane e degradanti. Tutto ciò, unito al sovraffollamento e aggravato da un sistema organizzativo che riduce il tempo della pena ad una permanenza continua in cella, in situazioni disagiate e insalubri, finisce per calpestare la dignità e negare la speranza. A subire questo inferno vi sono i cosiddetti “cattivi”, il cui vero nome porta segni di fragilità, spesso povertà, ed è contrassegnato, in molte situazioni, da una vulnerabilità sul piano della salute mentale o a causa della tossicodipendenza. Davanti a loro si spalanca un contesto che affligge, abbrutisce, spesso fa morire. Ma potrebbe essere diverso. Da luogo di contenimento a occasione di percorso, con il contributo di tutti affinché la persona possa rispondere in modo vero all’errore commesso.
Sollicciano è stato definito uno dei peggiori carceri d’Italia. La drammaticità delle condizioni di vita al suo interno ha indotto anche la politica a invocarne la chiusura. Tu lo vai dicendo da anni e, oggi che la tua presa di posizione non è più voce solitaria, ritieni possibile un nuovo rapporto tra la città e il carcere che consenta di individuare concrete soluzione alternative?
Oggi tutti criticano aspramente le condizioni di Sollicciano e ne invocano la chiusura. Che di fronte al suo stato non esistano altre soluzioni efficaci possibili rispetto a questa, credo sia ampiamente condivisibile, come dimostrano gli anni recenti nei quali, in modo maldestro, si è talvolta cercato di mettere qualche toppa. Il disastro strutturale e umano presente all’interno, frutto di anni di degrado e malagestione, è tale da richiedere un cambiamento radicale, che solo una nuova esperienza può portare. Non vorrei, però, che lo slogan di “abbattimento”, così in voga ora tra le fila delle varie parti politiche, divenisse una semplificazione della questione ed un fumo attraverso il quale nascondere la vera intenzione di non far nulla di concreto, se non piccoli aggiustamenti di puro imbellettamento superficiale. Occorrono proposte e soluzioni concrete, che per ora mancano, mentre tutti sono impegnati in proclamazioni di sdegno o in lanci di accuse reciproche, con un rimbalzo di responsabilità tra amministrazione centrale del Dap e Direzione dell’Istituto. Si parla di tutto, ma intanto si continua a tacere intorno ai detenuti che, in queste stesse ore, stanno continuando a subire l’inferno di sempre. Fino a qualche tempo fa le voci che si levavano erano isolate, inascoltate, anzi punite. Ne ho fatto esperienza personalmente, subendo l’allontanamento dall’Istituto proprio a causa delle mie denunce rispetto alle terribili condizioni presenti all’interno e alla palese violazione di diritti fondamentali dei detenuti. Ora, però, non dobbiamo fermarci a questo ma dobbiamo orientarci prontamente a qualcosa di diverso, che purtroppo sembra non essere realmente desiderato se non da pochi. La città di Firenze deve accogliere in sé la questione del carcere, deve considerare sua parte integrante le persone detenute per renderle partecipi di un percorso che abbia come unico scopo la vera inclusione, la cittadinanza piena.
Il numero di suicidi in carcere è impressionante. In carcere si muore nella sostanziale indifferenza collettiva. L’ultimo suicidio a Sollicciano è di poco più di un mese fa. Come può essere arrestata questa terribile spirale di morte?
L’anno 2024, a livello nazionale, è stato l’anno record di sempre per il numero dei suicidi nelle carceri. In generale, è stato l’anno con il maggior numero dei decessi. Ciò è indicativo nel dirci che questo luogo è diventato realtà di morte, contesto dove si soffre, ci si ammala e si va incontro ad un destino di non vita. In molti hanno descritto questa condizione con l’espressione “morti che camminano” riferita a chi è detenuto e, purtroppo, in molti casi non si tratta solo di una morte interiore, psicologica. Di carcere si muore concretamente: è la morte per pena. Sollicciano si è contraddistinto anche in questo ambito: negli ultimi tre anni si sono verificati dieci suicidi. Non si tratta di numeri da casistica, ma di persone che non ci sono più, che hanno concluso la loro vita in una situazione di abbandono, schiacciate da una condizione rispetto alla quale l’unica via possibile è apparsa essere, appunto, la morte. Pensiamo bene all’assurdo di tutto questo: l’istituzione nata per restituire alla vita piena e sociale le persone che, dopo l’errore, vivono l’esperienza della pena detentiva, non restituisce affatto alla vita ma alla morte. E se ciò non avviene, restituisce comunque persone peggiori di prima, annullate. Il primato di Sollicciano è una sconfitta per l’intera comunità cittadina. Questa spirale di morte, che non conosce fine, difficilmente potrà interrompersi se non subentrano subito veri cambiamenti, sotto ogni punto di vista, che devono coinvolgere l’intero sistema. Non si tratta solo del decoro e della bellezza, sì, bellezza degli spazi, ma di un intero contesto capace di mettere al centro la persona detenuta mai distaccandola dal contesto sociale esterno e di offrire ad essa percorsi ed opportunità attraverso le quali poter vivere ciò che, per inadempienze spesso dello Stato, non ha potuto incontrare prima. Occorre una vera rivoluzione culturale, sociale, di pensiero. Il successo di un percorso, come tanti ne ho visti, passa dalla valorizzazione di chi si ha davanti e non dalla sua affl izione.
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