Le recenti dichiarazioni di Donald Trump su Groenlandia, Panama e Canada meritano un’analisi approfondita. Non tanto per il loro contenuto – che rimane improbabile come realizzazione politica concreta, a partire dall’ipotetica aggressione a due paesi Nato: Danimarca e Canada – quanto per il metodo comunicativo che Trump padroneggia con continuità ed efficacia da diversi anni. Una comunicazione che, già durante la sua prima campagna ed esperienza presidenziale (2016-2020), ha dimostrato come sia possibile gestire l’agenda mediatica attraverso dichiarazioni shock, capaci di attrarre l’attenzione della stampa e polarizzare l’opinione pubblica.

L’interesse di Trump per la Groenlandia

Trump aveva già manifestato il suo interesse per l’acquisto della Groenlandia, nel 2019, scatenando reazioni ironiche e indignate da parte della comunità internazionale. Anche allora, tuttavia, l’obiettivo non era tanto una reale negoziazione con la Danimarca, ma ottenere visibilità e posizionarsi come un leader fuori dagli schemi, pronto a sfidare convenzioni e protocolli diplomatici consolidati. Allo stesso modo, la mappa con il Canada “annesso” agli Stati Uniti, postata sui suoi canali social, rappresenta un gesto più simbolico che realistico. Non è necessario che il pubblico creda seriamente a questa proposta; è sufficiente che se ne parli, generando “rumore” e traffico e riaccendendo il dibattito sull’eccezionalismo americano, tema centrale e fondante del messaggio Maga (Make America Great Again). D’altronde, diversi elettori trumpiani nel 2016, alla domanda “Ma lei crede davvero che costruirà un muro tra Stati Uniti e Messico?”, risposero: “Mi basta sapere che Trump pensi di farlo”.

Il sistema della ricompensa

Un aspetto cruciale della comunicazione trumpiana è il ruolo dell’effetto annuncio. Dichiarazioni come quelle sulla Groenlandia, Panama o il Canada non mirano tanto a realizzazioni concrete quanto a generare aspettative e ad alterare le percezioni. Questo meccanismo si basa su un principio semplice: il percepito plasma il reale e, per molti di noi, l’annuncio di per sé “reifica” una forma di azione e, soprattutto, ci gratifica, genera una risposta inconscia del sistema della ricompensa. Nell’era della dopamina, il suo è un continuo bombardamento di stimoli mirati a produrre gratificazioni immediate. In questo senso, la comunicazione di Trump si inserisce pienamente nella logica dello “shock and awe”, una formula coniata da Christian Salmon in un suo libro recente sulla narrazione politica contemporanea. Questo modello punta a creare un impatto immediato e destabilizzante, capace di catturare l’attenzione e lasciare un segno duraturo nella percezione pubblica. Sotto questo profilo, le dichiarazioni eclatanti di Trump non hanno tanto lo scopo di informare o persuadere, ma soprattutto di stupire, polarizzare e mettere in discussione lo status quo, sfidando il pensiero mainstream. Questa sorta di effetto placebo della comunicazione politica si manifesta quando una parte significativa del pubblico percepisce l’annuncio come sufficiente a soddisfare un bisogno simbolico.

Contanto i risultati

Nel caso di Trump, la sua base elettorale non chiede necessariamente che la Groenlandia venga acquistata o che il Canada venga realmente annesso; ciò che conta è la sensazione che il loro leader stia pensando in grande, sfidando le regole e rivendicando una supremazia americana globale. Non importa se queste visioni siano realistiche o attuabili: il loro valore è simbolico, non pratico. Ogni annuncio diventa un tassello di una narrativa più ampia, in cui l’America torna al centro del palcoscenico globale e in cui il leader manifesta un volontarismo e una capacità d’azione (ipotetica) spiccata. Che quel volontarismo possa diventare velleitarismo poco importa. Qui e ora funziona e ottiene i suoi risultati.

Luigi Di Gregorio

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