L’opinione americana, giornali, tv e social, rimpallano una domanda paradossale, nel senso che è tanto assurda quanto perfettamente realistica: se Donald Trump fosse arrestato e condannato, potrebbe o no governare il Paese come legittimo Presidente degli Stati Uniti d’America? Nessuno può dirlo perché i faldoni d’accusa nutriti dai procuratori sono ben quattro, ciascuno con i propri allegati che richiedono anni di discussione in sede giudiziaria. Di qui la questione paradossale e del tutto reale: la Costituzione americana si preoccupa soltanto di garantire il sacro rispetto della volontà dell’elettore. Lui è il padrone e può mandare alla Casa Bianca chiunque, perché non un condannato, visto che non esiste una norma che lo vieti, mentre da noi è legale solo ciò che è permesso.

Quindi, un Donald Trump in prigione, se fosse eletto alla Casa Bianca costituirebbe un problema costituzionale irrisolvibile. Nei dibattiti c’è chi sostiene seriamente che potrebbe essere domiciliato in galera mentre governa in Paese, scontando la sua pena. Ciò non accadrà mai, ma intanto se ne discute animatamente in linea di principio: chi oserebbe negare il potere sovrano del popolo elettore?
Che questo paradosso sia esaminato nei minimi dettagli da stampa, televisione e social americani mostra la differenza fra la democrazia americana, nata da una rivoluzione che precede quella francese, con le democrazie europee.
Il risultato politico è che soltanto negli Stati Uniti poteva suscitare un animato dibattito l’idea di un detenuto eletto Presidente, e che di conseguenza tutte le nuove accuse per processare Trump resteranno probabilmente inefficaci in una campagna elettorale e persino alla sua possibile elezione. Ed è evidente che Donald Trump con i suoi avvocati stia usando in maniera quasi diabolica tutte le opportunità che il suo stato di accusato permette e che lui stesso ogni giorno emetta i suoi Twitter aggiornando il numero di anni che potrebbe passare in prigione se condannato e che per ora, secondo i suoi calcoli sarebbero 561.

Questo paradosso ha un effetto galvanizzante sui suoi elettori dichiarati o potenziali, anche considerando che l’America è il paese in cui l’underdog, alla fine, vince. Decine di film popolari raccontano la solidarietà con un evaso che viene accompagnato e coccolato dalle cronache e dall’ospitalità di ogni casolare. Questo è lo stesso spirito rivendicato dai sostenitori dell’emendamento che permette ai cittadini di portare le armi.
È così che l’aggiornamento delle accuse per i fatti del 6 gennaio al Capitol Hill alimenta la solidarietà pro-Trump e del resto il grand Old Party repubblicano è quasi tutto schierato con lui, malgrado le riluttanze del rampante Ron De Santis governatore della Florida.

Questo consolidamento della posizione dello scaltro tycoon (che ha difeso in un dibattito televisivo l’autenticità della sua bizzarra capigliatura) provochi molto allarme in casa democratica, visto che il partito dell’asinello dispone come unico candidato l’attuale presidente, come vuole la tradizione che però è visibilmente penalizzato da un corpo decadente, cosa che lascia prevedere la sua sostituzione nel corso del quadriennio con la vice Kamala Harris, un ex procuratore detestata dai giovani per la sua severità nei confronti dei consumatori di marijuana. Un’eventuale elezione di Trump capovolgerebbe la politica estera e quella della difesa dell’attuale amministrazione perché il candidato repubblicano non fa mistero della sua solidarietà con Vladimir Putin e del crescente disprezzo nei confronti dell’Unione Europea e della Germania in particolare.
Così, più “the Donald” è vulnerato dagli indictment, più crescono le sue possibilità di successo, sostenute da un elettorato di ex migranti legali che si oppongono ai migranti illegali, e da un ceto medio che non intende seguitare pagare di sua tasca il riarmo europeo in funzione antirussa. L’allarme per un attivo intervento russo sulla campagna elettorale, è del resto in crescita e pubblicamente biasimato dalla stampa liberal.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.