Gli ultimi sprazzi di campagna elettorale regalano la solita ridda di polemiche, promesse e dichiarazioni più o meno roboanti. Il candidato sindaco Gaetano Manfredi sfila per le strade al fianco del governatore Vincenzo De Luca che lancia l’ex questore Antonio De Iesu come assessore comunale o addirittura vicesindaco e tuona contro i trasformismi, dimenticando gli ex demagistrisiani riciclatisi nel centrosinistra. Lo sfidante di centrodestra Catello Maresca sbandiera la lettera con cui Silvio Berlusconi lo celebra come «bravo magistrato» e «moderato noto per il suo impegno». Anche gli altri aspiranti sindaci si fanno forti del sostegno di forze politiche e movimenti civici, ma forse dimenticano quello che a Napoli è da tempo è il primo partito: quello del non voto.

Basta ripescare i dati delle comunali del 2016. All’epoca, al primo turno, alle urne andò il 54% dei napoletani: un dato in linea con quelli registrati a Milano e a Roma, dove a votare furono rispettivamente il 55 e il 57% degli aventi diritto. Al ballottaggio, invece, ai seggi si presentò poco meno del 36% degli elettori partenopei. Ciò significa che, nelle due settimane tra il primo turno e il ballottaggio, in città si persero addirittura 18 punti di partecipazione, a riprova di una disaffezione verso la politica che nemmeno la “rivoluzione arancione” di Luigi de Magistris è riuscita a sconfiggere. Nel 2016, però, il quadro politico napoletano scontava l’assenza di un candidato forte del Partito democratico, mentre il Movimento Cinque Stelle non era ancora diventato la realtà politica forte che è attualmente. Oggi il quadro è cambiato: Pd e M5S hanno un candidato unitario sicuramente competitivo, mentre sul fronte opposto ci sono un magistrato simbolo della lotta alla camorra, un politico di lungo corso e l’erede della rivoluzione arancione. Le premesse per superare la soglia del 54% di affluenza e riportare i napoletani al voto c’erano tutte, almeno prima della campagna elettorale. Peccato che i candidati – chi più, chi meno – si siano impegnati a trasformare quella ormai prossima alla chiusura in una delle peggiori campagne elettorali della storia per livello del dibattito e qualità delle proposte. Col risultato che la disaffezione nei confronti della politica sembra cresciuta rispetto al passato.

Se questa tendenza dovesse essere confermata lunedì prossimo, il danno sarà duplice. Sarà un danno di carattere istituzionale perché, in questo momento storico, Napoli non può permettersi un “sindaco di minoranza” come de Magistris, eletto col 67% dei consensi espressi, però, da un elettore su tre. A Napoli serve un primo cittadino con una legittimazione forte che gli consenta, per esempio, di battere i pugni sul tavolo quando si tratterà di pretendere soldi, leggi e sostegno politico dagli altri attori istituzionali. E questa legittimazione può arrivare soltanto da una maggioranza ampia, omogenea e che sia effettiva espressione del maggior numero possibile di napoletani. Il secondo danno sarà politico: un alto livello di astensione certificherebbe l’ulteriore distacco della classe dirigente dall’elettorato, colpa di chi ha preferito fondare la campagna elettorale sulle chiacchiere anziché sulla battaglia tra le idee. Il risultato sarebbe una Napoli ancora più disillusa e sfiduciata: uno schiaffone per tutti, anche per il vincitore delle elezioni.

Avatar photo

Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.