Grazie, ma no, grazie. Gaetano Manfredi ha gentilmente declinato l’invito del Mattino a partecipare al confronto con gli altri candidati sindaci di Napoli. «Non vi sono le condizioni per un confronto sereno», ha precisato l’ex ministro prima di far sapere che la sua coalizione resta «al confronto con la città per ascoltare le esigenze dei napoletani e proporre loro adeguate soluzioni». Niente da fare, il professore non vuole parlare con nessuno se non con i cittadini che, ovviamente, sono quelli che dovrebbero votarlo. Ma con tutti gli altri no: nessuna intenzione di sedersi al tavolo con Catello Maresca, Antonio Bassolino e Alessandra Clemente con i quali, evidentemente, ha poco da di dire. A lui discutere di Napoli e dei progetti per una città sfregiata da dieci anni di vuoto amministrativo, non interessa. E così, buon dibattito a tutti, ma io non vengo.

Manfredi ha tirato fuori dalla tasca la vecchia regola della politica secondo la quale, in una competizione elettorale, il candidato che i sondaggi danno in pole position non partecipa ai dibattiti con gli altri candidati: meglio defilarsi anziché rischiare qualche scivolone o regalare visibilità  ai diretti concorrenti. Manfredi sa di essere in vantaggio rispetto agli altri, ma è anche consapevole del fatto che l’assenza pesa più della presenza. Quindi “meglio non andare” e pazienza se a pagare è la città che invece ha un disperato bisogno di un confronto serrato sul futuro e di un progetto politico e amministrativo finalmente credibile.

Questa forma di astuzia, comprensibile forse ma certamente non condivisibile, si intreccia con una componente, pure lei vecchia come la regola del “meglio non partecipare”: la cultura degli esponenti del Movimento Cinque Stelle, storicamente più inclini al monologo che allo scambio di opinioni. Nel 2017 l’allora leader pentastellato Luigi Di Maio rifiutò di partecipare a un confronto in tv con il segretario del Partito democratico, Matteo Renzi, sostenendo che non fosse più lui il suo competitor politico. Stessa cosa fece il fondatore del M5S Beppe Grillo: niente tv e niente discussione con Renzi. Insomma, in questo “no grazie” di Manfredi, forse qualcosa dei grillini c’è. E non regge nemmeno la giustificazione per la quale non ci sono le condizioni per un confronto sereno, perché di solito la politica si fa anche alzando la voce e magari esprimendo con particolare fervore le proprie idee davanti agli avversari.

Ma esiste una sorta di “obbligo al confronto”? Forse un obbligo no, ma una forte raccomandazione sì. La legge assicura parità di condizioni «nelle tribune politiche, nei dibattiti, nelle tavole rotonde, nelle presentazioni in contraddittorio di programmi politici, nei confronti, nelle interviste e in ogni altra trasmissione». La logica della legge sta nel diritto dei cittadini-elettori di essere informati nel modo più completo e obiettivo, perché svolgere un monologo senza contraddittorio priva chi ascolta della possibilità di farsi un’idea completa della questione. Il “no” di Manfredi riporta ai giorni del toto-nome, quando la città era in trepidante attesa: chi si candida? E Manfredi pretese il patto per Napoli, una soluzione ad hoc per scendere in campo, una sorta di piccolo privilegio tutto suo in cambio della sua disponibilità. Questo traspare pure oggi: io sono io e quindi con voi non ci parlo.

Almeno, questa è la sensazione che lascia dietro sé il “gran rifiuto” dell’ex ministro e che riporta ai libri di storia. Il gran rifiuto per eccellenza furono le dimissioni del Papa, quelle arcinote di Celestino V che fu eletto e dopo pochi mesi lasciò l’incarico. Paragone azzardato. Manfredi non è ancora stato eletto, per il momento è «colui che fece il gran rifiuto», come scrisse Dante di Celestino V, dopo averlo collocato nella Divina Commedia nell’Antinferno: tra gli ignavi.

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Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.