Gli eventi di questi giorni hanno dimostrato come sia stato fatto un errore. Quando il primo governo Conte e il ministro Costa hanno deciso di chiudere l’unità di missione Italia Sicura, hanno fatto un errore importante. Un errore che la cabina di regia e il nuovo commissario per la siccità Dell’Acqua dovrebbero cercare ora di correggere. Chiariamoci: l’errore non è dovuto al fatto che l’unità avrebbe evitato la tragedia di questi giorni. Dato qualsiasi sistema idraulico esiste sempre un evento che può sopraffare anche quello più robusto.

Le piogge che hanno colpito l’Emilia-Romagna, incluso il paese dove sono cresciuto, Budrio, e dov’è crollato un ponte, appartengono a questa categoria: eventi che difficilmente sarebbero stati gestibili, indipendentemente dalle dimensioni degli investimenti. Vivere in un paese con un’idrologia complessa, colpito da precipitazioni estreme, è garanzia di occasionali catastrofi. Basti pensare al Giappone, paese altamente ingegnerizzato e con una spiccata cultura del rischio, che però si trova ad affrontare fenomeni che a volte eccedono la capacità di gestirli.

No, l’errore non è non aver saputo costruire in pochi anni un paese che non possa mai soffrire di catastrofi. L’errore è non avere un’organizzazione istituzionale, un’unità di missione, che sia in grado di mantenere la lista delle priorità con corrispondenti costi di cosa si debba fare, di cosa vada fatto prima, e di cosa dopo. L’errore è non avere la capacità, sostenuta nel tempo, di utilizzare l’attenzione dei vertici dello Stato e le risorse del governo per eliminare ostacoli, facilitare il coordinamento, e guidare con analisi e fatti un’accelerazione costante nel perseguimento della sicurezza idrica. Non basta dire che servono nuovi invasi.

Dove sono i più urgenti e perché? Quanto grandi? Quanto costano? Da dove vengono i soldi? Quali autorità devono essere coinvolte? Dove sono i problemi che impediscono di fare passi avanti? Non basta dire che devono essere rinforzati gli argini. I consorzi di bonifica gestiscono oltre 16,000 chilometri di argini, poco meno della distanza tra Roma e Aukland, in Nuova Zelanda. Quali di quei chilometri sono prioritari? Quanti soldi servono? Chi deve farlo, e se non lo fanno, perché no? Ciò che manca nel dibatto pubblico non sono principi. Sono i fatti. Che manchino lo si vede da tempo.

Nei disastri di Ischia e Senigallia dell’anno scorso, colpirono giustamente le vittime e le perdite. Ma doveva anche sorprendere che nessuno nel dibattito pubblico sapesse indicare, a livello nazionale, quante Ischia o Senigallia ci fossero, dove fossero, e cosa rischiassero. Come la Romagna per esempio. Rispondere a quelle domande non è facile, non solo per la complessità idrogeologica dell’Italia.

Il determinante più importante nella gestione dell’acqua non è l’acqua stessa, ma cosa facciamo e come agiamo sul territorio. La scelta di agricoltori di cambiare cosa si coltiva per soddisfare la domanda dei consumatori, la costruzione di nuove aree residenziali, o cambiamenti nella viabilità: tutti questi sono fattori che modificano il valore, la posizione geografica, e i bisogni delle comunità e delle loro attività economiche.

Abbiamo una cabina di regia e una struttura permanente nella Protezione Civile per gestire l’emergenza. Ma quando si tratta di gestire l’emergenza di lungo periodo, l’adeguamento della sicurezza idrica del paese, che è l’unico modo per ridurre la frequenza delle catastrofi nel tempo, non abbiamo più una simile capacità organizzativa. Il sintomo di questo vuoto istituzionale lo si vede nella confusione con la quale abbiamo affrontato il Pnrr.

Un paese che non riesce a gestire siccità e alluvioni ovunque, a fronte di oltre duecento miliardi di euro a disposizione non è stato in grado di articolare quale sia la lista di investimenti necessari, a parte qualche centinaio di milioni di euro per le perdite e un paio di miliardi per gli invasi. Siamo nella condizione paradossale di avere soldi e attenzione pubblica, ma di non sapere cosa fare. Non basta un commissario per un anno.

Serve un’unità centrale permanente che sia in grado di raccogliere e studiare i dati, verificare i costi, verificare i processi di implementazione, fare centinaia di conversazioni con la miriade di istituzioni, dalle regioni, alle autorità di bacino, ai comuni, che hanno responsabilità della soluzione. Soprattutto serve collegare le competenze distribuite in ministeri, regioni, enti e agenzie con un’autorità politica che possa e debba prendersi la responsabilità di decidere. Serve una guida competente e permanente insomma.

Negli anni Trenta, fu pubblicata una nota filastrocca nella rivista britannica Punch che macabramente recitava: “Chi è alla guida del treno stridente? / Il rodiggio scricchiola, gli agganci tirano, / il ritmo è incalzante e gli snodi si avvicinano. / Il sonno ha tramortito l’orecchio del macchinista / mentre i segnali lampeggiano invano nella notte. / La morte è alla guida del treno stridente.” Abbiamo il treno, ma se non ci dotiamo di macchinisti competenti e presenti, saremo sempre meno in grado di gestire ciò che ci aspetta.

Giulio Boccaletti

Autore