La recrudescenza della violenza giovanile, che è un aspetto della violenza di genere e dei femminicidi, è un problema emergente in modo esponenziale che riguarda tutti. Il fermo immagine di questa piaga sociale ci descrive una realtà devastante. Occorre un forte recupero di senso di responsabilità collettiva, e che qualcuno abbia il coraggio di spezzare queste spirali perverse ricominciando a parlare di senso del dovere, di rispetto, di dignità, di cultura come strumenti di emancipazione sociale e di crescita individuale, ripristinando il concetto del “limite invalicabile”. Per contrastare la violenza giovanile bisogna scoprirla e intercettarla alle origini e intervenire con tempestività. E non esiste un target sociale di riferimento prevalente.

Scuola, famiglia e il buco nero del web e dei social

Addebitare le colpe soltanto alla società non rende giustizia alle azioni criminali che dipendono da fattori soggettivi. Affermare che la scuola deve pensare all’istruzione mentre sono padre e madre a doversi occupare dell’educazione dei figli è un vulnus che sta all’origine di tanti guai. I ruoli genitoriali sono in rapida obsolescenza e la famiglia sta diventando il primo anello cedevole. Possiamo ancora chiamare famiglia quel contesto dove ciascuno si isola? È l’incultura dei social a diventare prevalente, il buco nero del web consente viaggi pieni di incognite, senza censure, senza paletti e si materializzano condizioni emotive estreme in assenza di guide e controlli, si radicano solitudini incomprese. Possiamo dire che i social sono la prima causa di tanti apprendimenti sbagliati e fuorvianti e di conseguenti comportamenti azzardati e pericolosi.

Il ‘raptus’ è solo giustificazione

In rete c’è cyberbullismo, revenge porn, solipsismo e negazionismo: tutto è facile, tutto è fattibile fino a perdere la coscienza critica, vero mentore dell’esistenza. E come affermano con cognizione e autorevolezza Andreoli, Crepet, Morelli il cosiddetto “raptus” è solo una giustificazione ricorrente degli autori di azioni delittuose. Non ci si può trincerare dietro l’affermazione “era un bravo ragazzo, non so spiegarmi cosa gli ha preso”. Narcisismo, senso proprietario di possesso della vita degli altri, rimozione del rischio e autoindulgenza non possono giustificare un comportamento doloso, la consapevolezza di scegliere la scorciatoia del male, confidando in un bravo avvocato o nella clemenza di un tribunale. Non servono il pentitismo postumo, le fiaccolate, i palloncini liberati al cielo. Oltre la commozione (quella vera è però più composta) sono in prevalenza retorici nascondimenti per coprire con una sorta di catarsi collettiva, in quel composito assembramento umano, la presenza del prossimo colpevole.

Società orfana di valori, prevale senso impunità

La violenza ha radici lontane con ramificazioni inimmaginabili e riguarda tutti quelli che la realizzano e coloro che omettono di recidere – laddove competerebbe – la pianta del male. Viviamo in una società orfana di cultura, di valori e buoni esempi: in essa crescono giovanissimi ispirati da super-eroi invincibili che trasmettono un senso di impunità mascherato da gelosia e finto amore, un egocentrismo che confida nella prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti (spesso rimosse da una giustizia cervellotica), che è informato sugli sconti di pena e sulla sua valenza riparativa. Ma siamo anche tutti parte di una umanità dolente e inconsapevole, dove si alimentano solitudini siderali e una concezione minimalista della stessa esistenza ridotta alla mercè dell’effimero, dell’inutile e del breve. Che per questo non vale la pena di vivere o di essere vissuta, per fortuna non per tutti.