In Commissione Giustizia della Camera dei deputati i gruppi parlamentari, tra le varie proposte di legge di modifica dell’art. 4 bis O.P. depositate dopo l’ordinanza 97/2021 della Corte costituzionale, hanno, dunque, trovato l’accordo su un testo da portare in Aula. Un testo che unifica, non a caso, le sole proposte depositate dai 5Stelle, da FdI e dalla Lega, tutte tese a disciplinare un “nuovo ergastolo ostativo”, lasciando cadere nel vuoto l’unica proposta di legge, a firma Enza Bruno Bossio – eretica in un Pd sempre più ambiguo e manettaro – che, invece, era stata depositata ben prima delle decisioni del 2019 della Cedu e della Corte costituzionale sui permessi premio e sulla liberazione condizionale e che perciò era molto più meditata, illuminata e sicuramente meno istintiva rispetto alle altre depositate in reazione alla Consulta.

I toni trionfalistici di ben determinati settori parlamentari – i soliti – che hanno accompagnato l’approvazione tradiscono il significato del testo e le ragioni, di pancia, che lo hanno determinato. Dicono di averlo fatto con lo sguardo rivolto alla Corte costituzionale. La sensazione, però, è che, nell’orientare la loro bussola, abbiano sbagliato, posizionandola verso quei Paesi che la Corte di Giustizia ha già messo in una lista nera per le loro scelte in spregio allo Stato di diritto. Se avessero usato le coordinate giuste, infatti, non avrebbero cancellato, con un tratto di penna indelebile, la collaborazione impossibile, irrilevante e/o inesigibile ribadita di recente proprio dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 20 del 2022. Nel testo approvato in Commissione, accanto alla collaborazione come condizione privilegiata per l’accesso ai benefici di legge, si registra la parificazione della situazione in cui si trova chi non intende collaborare a quella di chi, invece, non può collaborare, in barba, appunto, alle indicazioni della Consulta sin dal 1996 e ribadite perentoriamente qualche settimana fa.

Pur prescindendo dalle innumerevoli ragioni che inducono un condannato a non collaborare e che, come ribadito dalla Cedu (Viola c./ Italia) e dalla Corte costituzionale, possono non essere dettate dalla intenzione di mantenere i rapporti con la criminalità organizzata bensì, ad esempio, da quella di preservare la sicurezza dei propri affetti dalle vendette criminali, esistono – e non son certo pochi – i casi di coloro che, magari, pur volendolo, non possono rendere alcuna collaborazione utile perché ogni aspetto della vicenda delittuosa è stato sviscerato e conosciuto dai giudici nel relativo processo così come eventuali concorrenti nel reato puniti oppure perché la loro condotta è stata talmente marginale da essere impossibilitati, per i livelli di conoscenza, a fornire utile collaborazione. Se poi consideriamo i casi di coloro che, pur condannati, si professano innocenti e che, pur volendo, non potrebbero collaborare a meno di non accusare falsamente qualcun altro, capiamo bene quanto le variegate ipotesi di collaborazione previste nell’art. 4 bis attualmente in vigore abbiano un senso di civiltà e quanto le scelte adottate in Commissione siano, per contro, reazionarie. Se ancora consideriamo che la Corte costituzionale, il 25 gennaio 2022, con la sentenza n. 20 ha rivendicato, ritenendola pienamente legittima, la diversificazione delle collaborazioni secondo la disciplina oggi vigente, nonostante già da mesi circolasse la formulazione unificata in Commissione, il sospetto che il testo approvato si trovi in contrasto con le coordinate costituzionali rischia di divenire realtà.

Tralasciamo approfondimenti tecnici sulla montagna di requisiti e presupposti – alcuni del tutto superflui, altri ridondanti, altri ancora tautologici se non incomprensibili come i collegamenti “anche indiretti o tramite terzi” – che il condannato dovrà dimostrare di possedere per poter accedere ai benefici penitenziari, riversata sul campo come scoria radioattiva pur di rendere l’aria irrespirabile e così non praticabile. O ancora, sull’innalzamento a 30 anni della pena espiata per poter accedere alla liberazione condizionale per gli ergastolani ostativi, nonostante la CEDU, nella decisione Vinter c/ Regno Unito, abbia riconosciuto come in Europa vi sia un tendenziale “primo riesame entro un termine massimo di venticinque anni da quando la pena perpetua è stata inflitta” evitando così di violare l’articolo 3 della Convenzione. Stendiamo un velo pietoso sull’introduzione, furtiva, di un articolo nuovo di zecca (art. 3) in materia di accertamento patrimoniale (legge 646/1982) per le misure di prevenzione nei confronti di chi è sottoposto al 41 bis, norma del tutto estranea alla necessità di riformare i percorsi che portano un condannato non collaborante verso i benefici penitenziari dai quali sono esclusi, per certo, proprio i detenuti “pericolosi” costretti al 41 bis.

È chiaro l’intento dei commissari che hanno deciso di presentare il testo unificato: da un lato, offrire una disciplina “terribile” complessivamente peggiorativa per strappare, così, le unghie alla Corte costituzionale rea di avere fatto “un favore alle mafie”; dall’altro, proseguire nell’opera di normalizzazione di quei magistrati di sorveglianza (pochi, in realtà) che si ostinano, ancora, ad applicare con rigore le attuali regole penitenziarie secondo Costituzione e Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Non lasciamoci suggestionare dalle suadenti frasi “maggiori garanzie di serenità di giudizio a quei magistrati che sono chiamati a pronunciarsi sulla concessione di permessi a detenuti che provengono da contesti altamente pericolosi”, “evitare la sovraesposizione del singolo magistrato e garantire decisioni più condivise”. Dietro la nuova competenza collegiale, per la concessione di permessi per i casi di 4 bis OP o per l’ammissione al lavoro, si nasconde la malcelata sfiducia e lo strisciante, quanto insopportabile, sospetto sui (pochi) magistrati di sorveglianza che si sforzano di individuare percorsi in linea con la funzione rieducativa della pena.

E poi, diciamolo senza ipocrisie. La collaborazione come strumento di lotta alla mafia e arma di ricatto per una corretta esecuzione della pena, così come scolpita nel testo unificato, non appartiene al sostrato valoriale di uno Stato di diritto e di una sana democrazia. Men che meno rende omaggio ai tanti, troppi, magistrati, ai servitori dello Stato assassinati dalle mafie! Sarebbe stato meglio che i membri della Commissione Giustizia avessero dedicato dieci minuti del loro tempo per leggere e riflettere sui passaggi di una splendida intervista fatta, nei giorni scorsi, dal prof. Costantino Visconti a Fiammetta Borsellino secondo cui “anche rispetto alle persone che mi hanno fatto più male come i Graviano, io non mi sento più appagata se loro restano segregati in una cella, ma se si accende una miccia di cambiamento.  Attenzione: non necessariamente questa deve condurre a una collaborazione. A me interessa che si produca un mutamento profondo nelle persone”. Purtroppo, il testo sinora approvato quella miccia di cambiamento, quel diritto alla speranza, l’hanno soffocata nel rancore di una vendetta collettiva che anima il dibattito, gettando, però, nel buio più fitto degli abissi i nostri valori, i nostri ideali, i nostri principi costituzionali e forse un po’ della nostra coscienza.