Tira brutta aria alla Camera dei deputati, dove lunedì scorso è iniziata la discussione sull’ergastolo ostativo. E non spira migliore brezza dalle parti del Ministero di giustizia, dove la guardasigilli Cartabia è già sotto attacco per aver indicato per la direzione del Dap, in luogo del consueto pm “professionista” dell’ antimafia, un ex giudice di sorveglianza che conosce il carcere e le sue regole. E che è stato già costretto, dopo aver subito attacchi vergognosi, a fare atto di fede all’articolo 41-bis del regolamento carcerario.

Al dottor Renoldi aveva già scritto ieri sul Fatto quotidiano una lettera aperta il dottor Caselli. Il quale, dopo aver ricordato come “l’esperienza più difficile della mia vita professionale” i due anni trascorsi al Dap, dà un’unica raccomandazione al collega: “l’ergastolo ostativo non va toccato” . Un’indicazione che sembra esser stata raccolta prima di tutto proprio dal Parlamento dove, di limatura in limatura, si sta andando nella direzione di disattendere le indicazioni dell’Alta Corte, che un anno fa sancì l’incostituzionalità della “morte sociale”, dando al Parlamento un anno di tempo (la scadenza al prossimo maggio) per l’approvazione di una legge che rispetti, oltre alla Costituzione, anche l’articolo 3 del regolamento della Corte europea dei diritti dell’uomo.

È sempre antipatico dover riconoscere di aver avuto ragione, ma quando nell’aprile dell’anno scorso avevamo scritto alla Corte Costituzionale “serviva più coraggio”, avevamo guardato con realismo la composizione dell’attuale Parlamento, fermo nei numeri e nella qualità dei suoi rappresentanti alle elezioni del 2018, con la prevalenza numerica dei Cinque stelle, con una Lega ondeggiante tra l’iniziativa referendaria e quel gusto antico del “buttare la chiave” dopo aver chiuso la cella, un Pd disposto a tutto pur di stare al governo con i grillini e la destra di Giorgia Meloni ancorata sempre più alle tradizioni del Msi. Resta ben poco sul piano numerico, senza nulla togliere alla qualità non solo dei componenti di Forza Italia e Italia viva, oltre a qualche singolo parlamentare, come Enza Bruno Bossio del Pd.

La giurisprudenza che mette in discussione il cuore stesso della norma che dal 1992 esclude dai benefici penitenziari una serie di condannati per reati gravi che non si siano “pentiti”, cioè di coloro che hanno ammesso i reati propri e denunciato quelli altrui, è chiarissima fin dal 2019. E non consente limature né i famosi “salvo che” in cui è specializzata la cultura di una certa sinistra, quella più sensibile alle sirene del Partito dei pm. Si parte dalla “sentenza Viola”, quella con cui la Cedu aveva condannato l’Italia perché non consentiva a Marcello Viola, condannato per gravi reati di mafia, di accedere ai benefici penitenziari previsti dalla legge del 1975. Il detenuto si era sempre dichiarato innocente ed estraneo ai reati che gli erano stati contestati. La sua era quindi una collaborazione impossibile. La sentenza metteva in discussione la costrizione al “pentimento”. E’ importante ricordare quel punto di partenza, perché è da lì che si arriva ai provvedimenti della Corte Costituzionale. Che, ancora di recente, con la sentenza numero 20 di quest’anno, ribadisce come punto fermo l’esistenza della collaborazione impossibile o inesigibile.

Ora la domanda è: nel testo in discussione alla Camera questo principio esiste ancora? Pare di no. Bisogna tener conto del fatto che non esistono solo coloro che si dichiarano non colpevoli, ma anche quei condannati che non hanno più nulla da aggiungere a quel che spesso un’intera schiera di “pentiti” ha già raccontato. E ancora, tanti sono i detenuti che hanno già fatto un intero percorso (di 26 anni) di cambiamento della propria vita, ormai lontani dal mondo mafioso, ma che per una questione di principio non vogliono scendere al livello dei delatori, oppure semplicemente temono per la vita dei propri familiari. Perché tutti costoro devano essere inchiodati a ciò che furono?

Il dottor Caselli ritiene, e non è il solo, che chi è stato delinquente una volta lo sia per sempre, perché negli ambienti della criminalità organizzata tutti sarebbero vincolati a una sorta di giuramento religioso o massonico insuperabile. Non è così. Potremmo fare i nomi e i cognomi dei tanti che sono veramente cambiati e si sono reinseriti nella società. Ma anche l’intervento di lunedì alla Camera del presidente della Commissione giustizia, Mario Peraboni, esponente dei Cinque Stelle, non promette niente di buono, e pare allineato al pensiero dei magistrati “antimafia” che sono stati ascoltati nel corso del lavoro in commissione.

Punto primo: per quale motivo per la concessione al detenuto di permessi premio o di liberazione anticipata occorre interpellare il pm presso il giudice che ha emesso la sentenza (e in alcuni casi addirittura il Procuratore nazionale antimafia)? Cioè colui che ha scattato la fotografia nel momento della commissione del reato? Secondo punto: il Parlamento non si fida dei giudici di sorveglianza, di quelli come il dottor Renoldi, insomma. Infatti il testo base in discussione sposta ogni decisione al tribunale, organo collegiale. E ancora: i 26 anni trascorsi i quali l’ergastolano può cominciare ad avanzare le sue richieste diventano 30. Ma non basta.

E’ inquietante quel “se sarà dimostrato” non solo il suo cambiamento, ma anche il concreto distacco dalle organizzazioni criminali. Pare che il testo preveda una sorta di corsa a ostacoli, lunga e complicata che il detenuto dovrà sostenere per arrivare all’agognata meta. E che dovrebbe fungere in realtà da disincentivo. Ma la Cedu e la Corte Costituzionale avevano detto altro.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.