“Non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale”. Il senso della pena è il tema del Congresso di Nessuno tocchi Caino, cui sono veramente lieta di partecipare. Può la pena essere ancora utile così come è concepita e praticata? E, soprattutto, può essere la pena concepita solo come retributiva se è vero – come è vero – che in questa direzione sembra andare il dibattito parlamentare sulla legge chiesta dalla Consulta in tema di ergastolo ostativo? I 121 emendamenti che sono stati depositati dimostrano la difficoltà del percorso attuativo di principi limpidi come quelli che la Corte Costituzionale ha espresso. La questione centrale è se l’ergastolo ostativo è in sé uno strumento per arginare la mafia continuando a manifestarsi attraverso l’esempio di una pena perpetua, inflitta come tale e che tale deve rimanere, con delle finalità dichiarate – questo a me è sembrato proprio un eccesso – di prevenzione generale. Così, il senso della pena, secondo la finalità dell’articolo 27 della Costituzione, non assume però rilevanza.

La finalità prevalente di politica criminale perseguita con la rigidità dell’ergastolo ostativo, rigido appunto, si contrappone al dettato della sentenza Viola della Corte Europea e della sentenza 253 della Corte Costituzionale, che invece si basano sulla necessità di valutare le singole persone, non sulle finalità di prevenzione generale. Punisco così duramente perché nessun altro faccia quello che ha commesso la persona che sto punendo e, quindi, non volgo lo sguardo alle persone stesse, guardandole in faccia per capire, una per una, che cosa hanno fatto e chi sono, quali progressi hanno compiuto durante il trattamento penitenziario, anche se la dissociazione dalla mafia si può manifestare in modo anche molto diverso dalla mera collaborazione con la giustizia. Eppure sappiamo bene, anche sulla base della nostra esperienza, che la personalità di un uomo non si congela mai. Io stessa non sono uguale a quella che ero ieri e non sono uguale in questo momento a quella che sarò stasera, a maggior ragione dopo 10 o 20 o 30 anni di esperienza detentiva anche molto dura, molto pesante. Si sa che l’uomo cambia ogni giorno, figuriamoci a decenni dal reato. Qui, però, il problema diventa complesso, se il giudice non valuta l’uomo e il suo possibile eventuale cambiamento. È tutto qui il senso del dibattito, perchè è giusto andare fino in fondo e guardare in faccia la persona per capire se essa è mutata o non è mutata.

La Corte Europea nella sentenza Viola aveva ben spiegato che la lotta al flagello della mafia non giustifica deroghe all’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo. La sentenza n. 253 della Corte Costituzionale ha parlato – sono importanti le parole dette – di una deformata trasfigurazione della libertà di non collaborare che l’ordinamento non può disconoscere a nessun detenuto. Queste sono pietre miliari su cui il dibattito di questi giorni rischia di perdersi. La Corte Costituzionale spiega perché la “presunzione assoluta” di pericolosità non va bene. Venendo ad osservare il testo base su cui si sta lavorando, si legge che questo si dilunga nella ricerca di tanti aggettivi che accompagnano le parole sull’istituto da modellare: integrale, assoluta, specifica, concreto, diverso, ulteriore. Sono aggettivi che restringono l’applicazione pratica positiva di questa normativa. Vi è poi la richiesta di allegazione specifica, da parte del condannato, di elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione dalla organizzazione criminale di eventuale appartenenza.

Tali argomenti devono consentire di escludere con certezza l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata e il pericolo di ripristino futuro di tali collegamenti. Tuttavia, risulta impossibile fornire la prova di un’allegazione diretta a evitare che non ci sia tale pericolo, come del resto è stato ritenuto da una sentenza della Corte di Cassazione del settembre del 2021. Quanto alla questione sul possibile trasferimento della competenza delle decisioni all’unico Tribunale di Sorveglianza di Roma, questo sembra portare a disperdere il valore della conoscenza della singola persona da parte del giudice territoriale, quel guardare in faccia di cui dicevo.

La possibile uniformità decisionale in capo a pochi giudici si scontra con la mancata conoscenza della realtà dei singoli detenuti, distribuiti sul territorio nazionale nei vari istituti, che hanno compiuto percorsi rispetto ai quali il magistrato si è confrontato, ha conosciuto, sa di cosa si tratta. Mi pare che tali prospettive manchino di considerare l’essenza del decidere, basata sulla conoscenza del valore della persona e ricordando che ogni persona è un valore e l’essere umano è un valore per il solo fatto di essere tale.