Con Ugo Finetti, già direttore di Critica Sociale, Segretario della Federazione milanese del PSI nel 1979, capogruppo del Partito Socialista Italiano a Palazzo Marino dal 1980 al 1985 e poi Vicepresidente della Regione Lombardia, rileggiamo gli anni di una metropoli che cambiava pelle, riuscendo a governare trasformazioni ineluttabili e scontrandosi poi con la “politica delle manette”.

Rileggere la Milano di Paolo Pillitteri, vuol dire fare un ripasso di un concentrato formidabile di storia di Milano e dell’intero Paese. Convergevano tensioni politiche, culturali civiche, economiche che dovevano trovare un punto d’incontro. Come se delle epoche, dei sistemi sociali, dovessero trovare tutti insieme una nuova forma comune, senza chiudersi…
«In quegli anni Pillitteri aveva – diciamo – incrociato da un lato la fuoriuscita dagli anni bui, anni di piombo, dall’altra parte la prefigurazione, quasi di una sorta di avvio di globalizzazione: cioè aveva affrontato la modernizzazione della città, ma anche le nuove diseguaglianze che si venivano a creare. Milano cambiò e andò verso un’economia dei servizi. Si fece il nuovo piano regolatore e si andò decisamente verso una politica riformista, una parola impronunciabile negli anni ’70… Un esempio del riformismo di quegli anni fu la collaborazione tra pubblico e privato che venne molto sviluppata e tra l’altro anche con degli interventi pubblici importantissimi, come l’acquisizione dell’area dell’Ansaldo. Poi, ha sempre avuto presente che Milano non era una città che poteva essere egemonizzata, ma che vi era un irriducibile pluralismo, quindi bisognava – anche nel governare il panorama culturale – tenerlo presente e valorizzarlo».

Questo ebbe riflesso anche nei rapporti tra forze politiche? Quel socialismo era per certi versi un elemento nuovo e un po’ estraneo ai contrappesi destra/sinistra. E Milano fu l’epicentro.
«Ci fu un rapporto delicato con i democristiani, ci fu maggior riformismo con l’esperienza dell’alleanza di sinistra. Il rapporto con i comunisti fu un rapporto dialettico certamente, però fu anche umanamente molto forte. Ci potevano essere elementi di tensione, però c’era un rapporto anche umano, personale, molto forte e molto positivo. Va detto che per più di dieci anni, prima con Berlinguer e poi con Occhetto, la storia dei comunisti italiani era stata storia di lotta contro la destra interna e contro il partito socialista di Craxi. Ma non era questa la posizione ovviamente del comunismo milanese: il comunismo milanese a sua volta aveva un carattere anche di modernità, nel senso che non era l’operaismo torinese, non era il comunismo ideologizzato romano. Aveva superato quelle che erano degli elementi un po’ arcaici. Negli anni 70, nella prima giunta di sinistra di Tognoli c’era ancora il PC che riteneva il tram di sinistra e la metropolitana di destra. La Milano di Pillitteri era una città competitiva ma dove si stava molto attenti alle diseguaglianze e ad avere una politica anche per le periferie».

A questo proposito, cosa si è perso di allora, perché oggi la questione delle periferie si pone come una delle maggiori criticità. O ancora c’è una enorme difficoltà nell’intercettare, anche a livello metropolitano, le tensioni giovanili. Qualcosa dell’approccio di allora andrebbe recuperato?
«Le criticità di certe questioni vengono da lontano. Dall’approccio politico, innanzitutto, non c’è più la repubblica dei partiti e abbiamo invece la repubblica dei social e quindi questo dà una certa fragilità nel rapporto tra politici, amministratori e territorio. Allora c’erano dei terminali territoriali molto forti. C’era da fronteggiare una diffusa cultura della violenza, questo però richiedeva naturalmente non un atto solitario, ma una risposta corale contro l’estremismo. I giovani avevano anche dei riferimenti culturali alternativi, così giovani cattolici, liberal democratici, socialisti e anche comunisti, avevano delle strutture, dei centri di aggregazione, dibattito culturale. Se non c’è una cultura, cioè un sistema di valori e una capacità anche di aggregazione collettiva è difficile che individui esasperati possano reagire a una situazione di confusione ma soprattutto di frustrazione».

E poi ci fu uno scontro tra i poteri dello Stato che si rivelavano poteri chiaramente anche all’interno della città. Quella tangentopoli che squassò Milano e l’intero sistema politico. Rileggiamo quel passaggio…
«Innanzitutto c’è stato un passaggio culturale e politico generale, non solo milanese: cioè l’idea che si aprisse la cosiddetta sfida della storia: la politica era inutile, partiti inutili e dannosi, bisognava lasciare un primato del potere economico. C’è stata questa convinzione diffusa che il potere economico potesse andare avanti in autonomia. Quindi si è formato un atteggiamento di rovesciamento della cosiddetta repubblica dei partiti. Poi, sul piano politico quella di Mani Pulite è stata una vicenda con una sceneggiatura di ferro, cioè i socialisti erano cattivi, gli industriali erano delle vittime e i comunisti erano degli innocenti. Quest’ultima cosa fu abbastanza ridicola perché se guardiamo i verbali della direzione del Partito Comunista vediamo che il 67,3% erano finanze, frutto di quella che loro chiamavano in gergo “amministrazione straordinaria”…».

I conti sono ancora aperti?
«Diciamo che per certi aspetti, nella sinistra, quando si trovano in difficoltà, alcuni sono ancora ad aspettare che “arrivino i nostri”, cioè i pubblici ministeri. Che ci sia il PM che risolva il problema della sconfitta».