La tempesta perfetta rappresentata dalle ultime disavventure tra Bari e Torino, le feroci stilettate di Giuseppe Conte e i sondaggi non entusiasmanti, non hanno ancora fatto risuonare al Nazareno l’allarme rosso ma neppure consentono al Pd di dormire tra due guanciali. Così la questione che inevitabilmente ritorna è quella del futuro di Elly Schlein: se casca, che succede? La famosa asticella da superare se vuole restare in sella – un’asticella psicologica più che politica – è fissata dai suoi al 20 per cento e comparata, sempre secondo i suoi, con un immaginario 14 per cento dei sondaggi (ma quali?) dopo le politiche del 2022. Si tratta chiaramente di un trucco, di fumo negli occhi. Il 20 significherebbe nel concreto un misero più 0,8 rispetto al risultato di Enrico Letta alle politiche, e quasi tre punti sotto il dato europeo di cinque anni fa, Nicola Zingaretti regnante.

Non esattamente un trionfo per una leader che ha vinto le primarie incarnando una promessa di autentico rinnovamento di programmi e di stile politico. Se poi nello stesso giorno delle Europee si dovesse registrare, oltre la probabilissima sconfitta in Piemonte, anche una serie di risultati negativi nelle grosse città dove si vota (attenzione a Bari e Firenze, due roccaforti) sicuramente la poltrona di Schlein comincerebbe a traballare. La sua e quella del gruppo dirigente. Un risultato addirittura inferiore al 20 (sotto Letta!) significherebbe poi che gli elettori, Elly, non l’avrebbero proprio vista arrivare, per riprendere il suo grido di vittoria la sera delle primarie. Se Schlein dovesse clamorosamente inciampare nelle urne di giugno si riaprirebbe fatalmente la questione della leadership nel Pd. Magari non nel giro di qualche settimana. Prima verrebbe l’ennesima autocoscienza collettiva, la mitica analisi della sconfitta intrecciata con una resa dei conti tra dirigenti.

Ma il nome del successore di Schlein che si fa a mezza bocca è uno solo, quello di Paolo Gentiloni, che resterà comunque a Bruxelles fino a novembre, dato che la nuova Commissione europea non verrà insediata prima. Lui ovviamente sta lontano da Roma, dalla politica italiana, dal Pd (soprattutto). Ed è molto probabile, per non dire sicuro, che di fare il leader di partito lui non abbia nessuna voglia, considerandosi ormai, peraltro comprensibilmente, come un uomo delle istituzioni e meno che mai è un personaggio disposto a fare battaglia politica per ottenere una poltrona.

Ma il Pd, per dire così, potrebbe cascargli in mano come una mela. Succede. Lui che farebbe, si scanserebbe? Detto questo – sostengono gli aficionados – Gentiloni, definito da Francesco Merlo «l’Italia delle competenze e delle buone maniere», sarebbe una figura in grado di correggere la linea movimentista e tendenzialmente woke di Elly restituendo al Pd il profilo di partito di sinistra di governo poiché, come egli stesso disse una volta, «il primo termine senza il secondo non mi convince» e dunque tornando in un certo senso alla vocazione originaria del Pd, immaginato e costruito appunto come partito di governo e non di pura rappresentazione del disagio sociale. Potrebbe esserci insomma una forza delle cose che come minimo lo porterebbe a fare il king maker di un/a nuovo/a leader (ma chi?) oppure a spingere direttamente lui alla guida del partito.

Che sia il più titolato non v’è dubbio. A suo favore giocherebbe molto il peso dell’esperienza maturata in questi anni da commissario europeo all’economia nei quali ha tessuto rapporti internazionali ai massimi livelli: insomma ha uno standing che gli consentirebbe con facilità di reggere la contrapposizione con Giorgia Meloni e la competizione con Conte. Che è poi la vera sfida che i dem devono giocare se vogliono restare in campo. Probabile infatti che il primo ad essere terrorizzato dal ritorno del commissario europeo sia Giuseppe Conte, l’uomo che ha dato vita al trasformismo del ventunesimo secolo inzuppando la sua brama di potere nel bidone dell’antipolitica, esattamente il contrario della politica a tutto tondo europeista e riformista di Gentiloni. L’avvocato del popolo per restare a galla ha bisogno di un Pd populista ma meno di lui, meglio ancora se un Pd frastornato dalle sue contraddizioni nelle quali egli s’infila ogni volta che può. Già adesso, questo va annotato, nel Pd vi sono persone, parlamentari, ambienti pronti a evocare l’attuale commissario europeo come la figura in grado di restituire al centrosinistra un’immagine forte in grado di marginalizzare i contiani come effetto inerziale di una leadership autorevole al Nazareno (mentre con Schlein, all’opposto, l’avvocato del popolo ha tutto da guadagnare).

I “gentiloniani” in quanto tali diciamo pure che non esistono, ma con “Paolo” sulla tolda di comando tutte le schegge riformiste, compresi vari ex sostenitori di Schlein, potrebbero ricomporsi e il Pd ritrovarsi in una nuova prospettiva politica. Se la casa brucia, in un modo o nell’altro, con un ruolo formale o informale, le ragioni a favore di Paolo Gentiloni non sono poche. E lui lo sa