Scegliere un candidato bravo ad amministrare e altrettanto a comunicare, a costruire relazioni empatiche con i propri cittadini, che poi scelgono di diventare degli elettori, non è cosa facile. Mai. Dappiù trasformare un candidato bravo a governare, ma non altrettanto a comunicare, è la prova più difficile per qualsiasi comunicatore, che invece deve saper indirizzare lo spin della percezione dei pubblici senza perdere di vista l’onere della credibilità. Una lezione che mi è tornata in mente qualche giorno fa, anzi esattamente una settimana fa, mentre rientravo a notte fonda a casa da Napoli. Ero stato, insieme a mio figlio, uno degli oltre 53mila spettatori che affollavano le tribune dello stadio Diego Armando Maradona per l’ultima partita del campionato della squadra allenata da Antonio Conte. Quella che ha consegnato il quarto scudetto agli azzurri grazie alle due reti messe a segno da Scott McTominay e da Romelu Lukaku. Mio figlio, non so ancora come, era riuscito nell’impresa quasi impossibile di acquistare online due biglietti nel settore Distinti. Questa enorme botta di fortuna ci ha permesso di non saltare il nostro appuntamento con la storia calcistica e di vivere così un’esperienza unica, irripetibile ed entusiasmante. Solo che, per quanto mi riguarda, è stata al tempo stesso un’esperienza alquanto frustrante.

La performance di Geolier

Entusiasmante perché – fino a quando c’era da urlare a squarciagola i vari cori che lo stadio intonava (a cominciare da quello più semplice e coinvolgente di tutti: “I campioni dell’Italia siamo noi, siamo noi”) – ero e mi sono sentito parte di un’onda gigantesca. Ero pienamente dentro il flusso emotivo del momento. Frustrante e imbarazzante, purtroppo, quando – tra una premiazione e un giro di campo – si è esibito a sorpresa Emanuele Palumbo, per tutti Geolier. Il rapper nato e cresciuto a Secondigliano, che ha scalato le classifiche, ha cantato due canzoni: “Ginevra”, in coppia con Luca Imprudente (in arte Luchè), e il successo sanremese dell’anno scorso, “I p’ me, tu p’ te”.

Ebbene, mentre Geolier rappava felice mi sono reso conto – dopo pochi secondi – che ero l’unico, o comunque uno dei pochi, che non cantava assieme lui e allo stadio intero. Incredulo osservavo, ovunque mi voltassi, persone che conoscevano a memoria i versi di “Ginevra”, che li anticipavano, li cantavano perché li sentivano dentro e sulla pelle. All’improvviso io ero muto più di un pesce, e tutto intorno vedevo invece donne e uomini – di ogni età e generazione, millennials, boomers e zoomers – continuare a cantare e recitare strofe che mi sembravano poco comprensibili o, peggio ancora, del tutto sconosciute. Eppure il frasario di Geolier era maledettamente efficace: arrivava dritto senza soste, con la stessa intensità di partenza riusciva a trasferire contenuti e senso a pubblici diversi e distanti.

Il linguaggio deve aggiornarsi

“L’elemento che lo rende interessante ai fini di uno studio sulle ideologie linguistiche – come scrive, in un saggio di qualche tempo fa, Daniela Pietrini che insegna italiano e francese presso l’Università Martin-Luther di Halle-Wittenberg – è la lingua delle sue canzoni. Geolier infatti canta esclusivamente in dialetto napoletano, non il dialetto letterario e poetico della tradizione, ma il dialetto quotidiano delle periferie”. Quindi una lingua viva e vitale. Per l’eterogenesi dei fini, è questa la lezione più importante che ho imparato dalla vittoria del Napoli, quando avevo ancora nelle orecchie il suono assordante delle trombe del Maradona: il linguaggio della politica deve aggiornarsi, e deve farlo velocemente se pensa e vuole comunicare qualcosa e combattere innanzitutto la battaglia dell’astensionismo. Solo i leader, i politici di qualsiasi latitudine istituzionale, che sono pronti a risciacquare il loro alfabeto, che comprendono quanto sia diventata necessaria una riscrittura delle forme linguistiche – considerando la profonda e repentina piattaformizzazione della grammatica e della sintassi – possono seriamente aspirare a essere candidati e a vincere le elezioni e la sfiducia (che nasce da un’incomunicabilità di fatto) dei cittadini.

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Domenico Giordano è spin doctor per Arcadia, agenzia di comunicazione di cui è anche amministratore. Collabora con diverse testate giornalistiche sempre sui temi della comunicazione politica e delle analisi degli insight dei social e della rete. È socio dell’Associazione Italiana di Comunicazione Politica. Quest'anno ha pubblicato "La Regina della Rete, le origini del successo digitale di Giorgia Meloni (Graus Edizioni 2023).