Il caso
Giancarlo Pittelli difendeva un boss, per questo l’hanno lapidato
La drammatica vicenda giudiziaria dell’avvocato calabrese Giancarlo Pittelli, arrestato e da otto mesi in isolamento nel carcere nuorese di Badu ‘e Carros, è gravissima ed allarmante per almeno due ordini di ragioni.
La prima è che Giancarlo Pittelli è un avvocato. Non c’entra nulla la solidarietà di categoria. Egli non è accusato di aver molestato una donna, o di aver rapinato una banca, per la qual cosa la sua qualifica professionale non meriterebbe la benché minima considerazione. Egli è stato arrestato per reati asseritamente commessi in ragione dell’esercizio del suo magistero difensivo. Difendendo soggetti accusati di appartenere a cosche ndranghetistiche, egli avrebbe finito per concorrere nei reati dei propri stessi assistiti. Spero comprendiate la straordinaria delicatezza della questione. Siamo dentro quella zona grigia che accompagna da sempre il nostro mestiere di difensori, e dentro la quale si annida, certamente insieme al possibile illecito almeno deontologico quando non penale del difensore, il cuore pulsante della più spregevole cultura giustizialista, quella che nutre istintivamente l’idea che il difensore sia un sodàle del proprio assistito. Idea, questa, che segna in realtà la negazione –per i cittadini, non per gli avvocati- del diritto stesso di essere pienamente, compiutamente e liberamente difesi.
Ora, la Corte di Cassazione ha già demolito molta parte di quelle gravissime accuse. Ha annullato senza rinvio, come si fa con la carta straccia, le ipotesi di rivelazione di segreti di ufficio e di abuso in atti di ufficio; e ha derubricato l’accusa di associazione mafiosa nel leggendario, magmatico, imponderabile “concorso esterno”. L’esperienza ci insegna che quando un’accusa così grave nasce prendendo dal giudice di legittimità simili ceffoni già nella culla, è destinata a una assai tormentata sopravvivenza. Dunque è almeno legittimo il nostro allarme: e cioè che le accuse siano figlie, piuttosto che di concreti, gravi e concordanti indizi di reità, di quella cultura poliziesca deteriore che vede nell’avvocato difensore un intralcio alla giustizia, un sodàle, appunto, dei propri assistiti. Si vedrà, naturalmente, e non sta a noi giudicare: ma le premesse queste sono, e non si può più oltre tacerle.
La seconda ragione di allarme è che, a prescindere da ogni considerazione di merito, la vicenda testimonia il grave livello di degrado processuale che ha ormai raggiunto l’istituto della custodia cautelare nel nostro Paese, rispetto ai principi normativi e costituzionali che pure lo regolano. Secondo legge e Costituzione, la privazione della libertà personale prima di una sentenza di condanna è una soluzione estrema, eccezionale, temporalmente da limitarsi quanto più possibile, giustificata non solo da una imponente consistenza indiziaria, ma soprattutto da “concrete ed attuali” esigenze di cautela rispetto alla indagine. Pericolo di fuga, pericolo di reiterazione del reato, pericolo di inquinamento delle prove. Concrete ed attuali significa che nessuno può essere incarcerato “altrimenti fugge”, o “altrimenti reitera il reato o inquina le prove”. Occorre che tali pericoli siano sorretti da elementi sintomatici concreti, attuali, tangibili. Giancarlo Pittelli è stato arrestato otto mesi fa, buttato in isolamento assoluto in una delle peggiori carceri italiane dove rischia di perdere il senno, pressoché irraggiungibile dai suoi cari e dai suoi stessi avvocati, nonostante il drastico ridimensionamento del quadro accusatorio e il lunghissimo, interminabile, assurdo arco di tempo trascorso. Le persone non sono sacchi di patate, che prendi e butti in uno scantinato, e poi si vedrà. Siamo ormai assuefatti a questa idea barbara ed incivile di custodia cautelare, e la prevalente coscienza civile del Paese -o ciò che di essa è rimasto- ha smarrito il senso di quanto sia grave, e fonte di inaudite ed ingiustificabili sofferenze, una simile mostruosità. L’avvocato Pitelli è a tal punto pericoloso da non poter essere detenuto nemmeno agli arresti domiciliari, dopo otto mesi di carcere durissimo e di massacro della propria dignità e credibilità professionale? Ed in qual modo egli potrebbe oggi inquinare le prove, o reiterare i reati, o fuggire se almeno detenuto in casa, con divieto di comunicare con altri che con i più stretti familiari? Qualcosa non quadra, in questa vicenda, ed è giunto il momento di dirlo con chiarezza. In questo Paese non ci sono solo i leoni da tastiera, o i forcaioli che organizzano invereconde manifestazioni di plauso per arresti annullati poi a centinaia già nelle settimane e nei mesi successivi. Esiste anche una coscienza civile che orripila di fronte a simili aberrazioni; una coscienza civile che deve riacquistare coraggio, risollevare la testa e far sentire nitida e forte la propria voce, in nome della difesa strenua ed incondizionata della libertà e della dignità di persone che la Costituzione presume innocenti fino a definitiva sentenza di condanna, e con esse della libertà e della dignità di ciascuno di noi.
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