Il 21 la Cassazione decide sulla misura cautelare
Giancarlo Pittelli è innocente, basta leggere le carte
Ci sarà pure un giudice in Cassazione, che avrà voglia di leggere la memoria degli avvocati Caiazza e Staiano, il prossimo 21 ottobre. Se c’è, se quei giudici ci sono, non potranno che stabilire quanto sia infondata la detenzione di Giancarlo Pittelli. E saranno ormai quasi tre anni da quel 19 dicembre del 2019 in cui mezza Calabria fu squassata dal terremoto di quel blitz chiamato Rinascita Scott, poi sfociato in un processo che langue destinato alla morte nell’aula bunker di Lamezia, nei giorni scorsi persino simbolicamente allagata dalla pioggia che ha determinato la sospensione dell’udienza.
L’avvocato Pittelli è ancora prigioniero, mentre il suo processo rischia l’estinzione per il moltiplicarsi delle ricusazioni nei confronti dei giudici. E il principale artefice di quel blitz, il procuratore Nicola Gratteri, è tuttora affaccendato nella speranza di una promozione che lo porti lontano da Catanzaro e dai suoi flop. L’ultimo sono le numerose scarcerazioni dopo l’ultima retata nel cosentino. Se qualcuno ha la curiosità di capire perché l’avvocato Pittelli è accusato di aver “esternamente” sostenuto una cosca mafiosa intestata al suo principale protagonista, un certo Luigi Mancuso di cui il legale è stato difensore per tantissimi anni, la memoria degli avvocati Giandomenico Caiazza e Salvatore Staiano è perfetta per cogliere tutta la pretestuosità e illogicità dell’accusa. Punto di partenza è una sentenza della corte di cassazione del 25 giugno 2020. Sono passati sei mesi dall’arresto dell’avvocato calabrese, e ancora i giornali rimbombano di una serie di episodi e episodietti che dimostrerebbero il suo ruolo di “consiglieri” di mafia.
Avrebbe raccomandato la figlia del boss per un esame universitario, e poi un bambino per un intervento ospedaliero. E addirittura nella conversazione tra due mafiosi mentre passavano davanti a casa sua, al primo che non lo conosceva e chiedeva se lui fosse un mafioso, l’altro rispondeva: “No, è un avvocato”. La cassazione aveva spazzato via tutto ciò come non-reati. Solo un comportamento di Pittelli era rimasto nelle mani dell’accusa, il sospetto che il legale fosse a conoscenza di atti investigativi segreti sulle deposizioni del “pentito” Mantella e li avesse divulgati ai suoi assistiti, in questo modo favorendo la cosca mafiosa. Un punto per l’accusa del procuratore Gratteri che pareva di una certa consistenza. Ma va sottolineato che il processo nei confronti di Giancarlo Pittelli è tutto qui. Lo ha detto la cassazione, non dimentichiamolo. Ora, che cosa ci si aspetterebbe da giudici attenti e imparziali, come devono essere coloro che siedono in mezzo alla bilancia, nel caso in cui si dimostrasse, oltre a tutto con documenti alla mano, che quella “prova” non esiste?
L’immediata scarcerazione dell’imputato, prima di tutto. Avrebbero dovuto essere presi per mano, quei giudici del Tribunale della libertà di Catanzaro che si sono persi in un labirinto di fantasie e deduzioni, tralasciando l’esame dei documenti che scagionano in modo inoppugnabile l’avvocato Pittelli dall’aver rivelato notizia riservate e inedite ai suoi assistiti per aiutare la cosca Mancuso. “La carta canta”, avrebbe detto con soddisfazione l’ex pm Tonino Di Pietro. Invece le carte sono state ignorate. La narrazione della procura di Catanzaro parte da un fatto storico preciso e da una data, il 12 settembre 2016, e da un’intercettazione ambientale tra Pittelli e un certo signor Giamborino. La cosca sarebbe “in fibrillazione” per le deposizioni del “pentito” Mantella, quindi si rivolge al legale per capire che cosa ci sia scritto nelle parti dei verbali coperte da omissis. Ed ecco qui la frase incriminata, la pistola fumante che inchioda Pittelli mentre afferma: “dice che ha scritto una lettera alla mamma, lui…accusa il fratello”. Ecco la prova! L’imputato conosceva verbali segreti del “pentito”, li propalava e li usava per aiutare la cosca.
Peccato che. Peccato che, a quella data, quella dell’intercettazione, la notizia che il “pentito” Mantella avesse scritto una lettera alla madre e che accusasse i più stretti familiari fosse già stata pubblicata dal Quotidiano del sud e fosse stata già diffusa dal sito Zoom 24. Quanto all’accusa nei confronti del fratello, Mantella la farà verbalizzare solo nell’interrogatorio di un mese dopo. Non era neanche ancora una notizia, al massimo un’intuizione, visto che i giornali parlavano di “stretti parenti”. Di fronte a questi documenti inoppugnabili, che cosa ci si sarebbe dunque aspettato da parte del tribunale della libertà? Che anche per quei giudici la parola “libertà” avesse un significato vero. Invece era accaduto che la cultura avesse preso il posto della ragione. Così quei giudici avevano preferito recitare la favola di Esopo, poi ripresa da Fedro e La Fontaine, “il lupo e l’agnello”.
Caro Pittelli, avevano sancito, se anche non mi hai intorbidato l’acqua e non hai violato la legge rivelando a un mafioso atti giudiziari segreti, allora hai commesso un altro reato, quello di “millanteria”. Cioè hai imbrogliato i tuoi interlocutori mafiosi. In questo modo li hai comunque sostenuti, vantandoti di informazioni che in realtà non avevi. Di fronte a un tale paradosso, potranno i giudici di cassazione, che già una volta sono intervenuti a sfrondare i fronzoli accusatori grattereschi, non annullare l’ordinanza del tribunale di Catanzaro? Non potranno. Appuntamento al 21 ottobre. Sperando che nel frattempo le precarie condizioni psicologiche e fisiche di Giancarlo Pittelli non mostrino ulteriori crepe.
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