Una maratoneta con notevole capacità di possesso palla e di avanzare nella metà campo avversaria tra un dribbling e un tunnel. Un bel gioco che però non ha fatto la differenza perché alla fine le risposte non sempre sono state esaustive o pertinenti. E più che altro, dopo tre ore tonde di conferenza stampa, restano i proclami di un comizio sviluppato secondo la traccia di ben 43 domande. “E’ Telethon, quando finisce” ha sorriso all’ultimo miglio mentre il presidente dell’Ordine Carlo Bartoli e il presidente della Stampa parlamentare la aggiornavano sulle cinque domande mancanti.

Giorgia Meloni ha dato prova, meglio dire conferma, di una notevole capacità retorica. Lo staff esulta: “Bravissima, molto padrona di tutti i dossier”. Deputati e senatori di Fratelli d’Italia parlano di “Meloni da record, spazzata via l’ennesima bufala delle opposizioni per cui la nostra leader non amerebbe il confronto con la stampa”. E poi il record: tre ore non le aveva mai fatte nessuno. Conte era arrivato a 2 ore e 56 minuti. Il problema è che le risposte sono state spesso evasive e generiche. Le regole d’ingaggio della conferenza stampa, per dare a tutti i giornalisti sorteggiati il tempo di poter fare la propria domanda, escludono l’interlocuzione tra il giornalista e la premier. Ciò significa che se la risposta resta generica non c’è possibilità di renderla specifica e calzante. Quella che segue è quindi una sintesi delle risposte mancate.

La tenuta della maggioranza
“Mi fido della mia maggioranza, c’è un buon clima, positivo e una visione comune” ha detto la premier rispondendo alla domanda sulle fibrillazioni e le divisioni all’interno della maggioranza. Risposta parziale e omissiva. Nessun riferimento al fatto che anche giovedì i ministri Matteo Salvini (Infrastrutture) e Matteo Piantedosi hanno dovuto fare più di un passo indietro rispetto al nuovo decreto sicurezza. La Lega voleva un pacchetto unico con dentro le nuove regole per le navi delle Ong, il giro di vite contro gli stalker per provare a gestire l’emergenza femminicidi e contro i minorenni protagonisti delle baby gang che infestano centro e periferie delle città.

La premier ha fatto muro, con il ministro Crosetto e il sottosegretario Mantovano, per evitare l’ennesimo decreto salame che non risponde ai criteri di omogeneità e urgenza. Esattamente come quello contro i rave party su cui le opposizioni stanotte hanno continuato a dare battaglia nel tentativo – disperato – di farlo decadere. Non per questioni ideologiche. Ma perché quel provvedimento, il primo nel governo Meloni, mette insieme le mele con le pere, lo stop alle ultime misure di contenimento del Covid con la stretta sui rave party e le nuove regole sull’ergastolo ostativo. E, soprattutto, perché quel decreto risulta sbagliato e pericoloso oggi che i cinesi sono tornati a viaggiare e stanno portando in giro per il mondo il virus col rischio di nuove possibili varianti.

Allarme Covid e decreto rave
Durante la conferenza stampa la premier è stata sollecitata più volte sul tema virus, vaccini e pandemia. La nuova emergenza cinese ha costretto il ministro della Salute a prendere nuove misure, dall’obbligo delle mascherine negli ospedali e nelle Rsa, ai tamponi obbligatori per chi arriva dalla Cina e isolamento in caso di positività. E tutto questo stride con il decreto che la maggioranza deve convertire entro le 24 di oggi 30 dicembre. Un testo in cui sono stati messi insieme Covid, giustizia e sicurezza.

“Sulla nuova emergenza sanitaria ci stiamo muovendo con tempismo, abbiamo chiesto all’Europa di agire insieme e in modo omogeneo per rendere più efficaci le misure”. Non c’è dubbio poi che mascherine e tamponi siano “utili” e per i vaccini (che si era dimenticata di menzionare nella prima risposta sul tema) “il governo ha in piedi una campagna per la vaccinazione di fragili e over 65”. Una campagna che non sortisce grandi effetti se al momento solo il 28 % degli italiani ha la quarta dose e che forse andrebbe potenziata. Sollecitata sulla possibilità di “ragionare” – come chiedono le opposizioni – sulla possibilità di congelare il decreto rave-covid-ergastolo ostativo per non cadere in contraddizione con quanto aveva appena detto su mascherine e tamponi, la premier ha sottolineato un secco no, “significherebbe farlo decadere”.

Ma le cose cambiano e le situazioni anche… “Il decreto stabilisce solo il reintegro in corsia dei medici che non si sono vaccinati e che comunque sarebbero rientrati il primo gennaio”. Falso: il decreto congela le multe per chi non si è vaccinato; limita a cinque giorni l’isolamento che può terminare senza controlli; leva l’obbligo del tampone per entrare in ospedali e Rsa. Nell’insieme, le norme danno un messaggio per cui il Covid è un’emergenza del passato. E’ il paradosso: un decreto smantella le precauzioni; una circolare del ministro ne inserisce altre.

La centralità del Parlamento
Suo cavallo di battaglia quando era all’opposizione, Meloni conferma di non aver cambiato posizione. “Sulla manovra i tempi sono stati stretti e il Parlamento non ha potuto lavorare. Mi dispiace, abbiamo avuto solo due mesi di tempo ma sono fiera del fatto che l’abbiamo approvata anche un giorno prima del previsto. Il prossimo anno andrà sicuramente meglio”. Anche qui le contraddizioni sono evidenti ma non possono essere sollevate. Proprio ieri il governo ha messo la tagliola, ha cioè tagliato i tempi del dibattito parlamentare, sul decreto rave-covid-giustizia. La “tagliola” è la negazione della centralità del Parlamento. Così come il ricorso costante alla decretazione d’urgenza (sono 14 i decreti in due mesi) e al voto di fiducia.

Ma guai a chi tocca il decreto rave. “In quel testo – precisa Meloni – ci sono anche altre norme necessarie contro i rave party rispetto ai quali dovevamo dare un segnale (e da quando si usa un decreto per dare segnali? ndr) e l’urgenza di modifiche all’ergastolo ostativo che se non avessimo proceduto i boss di mafia sarebbe usciti dal carcere”. Falso, anche questo. Nessun boss di mafia esce dal carcere se non viene approvata la riforma dell’ergastolo ostativo. Quindi il decreto in sé oltre che sbagliato e anche la negazione del Parlamento. Ma la conferenza stampa non prevede contraddittorio.

Il miracolo del Pnrr
“Sono molto fiera del fatto che abbiamo raggiunto tutti i trenta obiettivi mancanti. La staffetta con Mario Draghi ha funzionato”. Sarebbe stato interessante chiedere che fine hanno fatto le polemiche degli ultimi due mesi in cui alcuni ministri e anche la premier hanno “accusato”  il precedente governo di non aver lavorato bene. Di aver lasciato una situazione confusa. Delle due l’una: o erano esagerate le critiche o il governo è diventato Mandrake.

Buona la seconda par di capire. “Abbiamo centralizzato le competenze in capo ad un solo ministro (Raffaele Fitto che sta facendo un gran lavoro, ndr) che con la sua struttura ha preso il posto della cabina di regia Covid (lapsus, ndr), scusate Pnrr”. Restano i problemi del costo dei materiali e della capacità di spesa. “Dobbiamo semplificare e lo faremo”. C’è da chiedersi a questo punto cosa resta del ruolo di soggetti attuatori di Comuni e Regioni.

“Nessun condono”
Molte domande si sono concentrate sulla manovra approvata al Senato un minuto prima dell’inizio della conferenza stampa. Meloni rifiuta l’accusa sugli undici piccoli condoni (“Solo rateizzazioni e la cancellazione delle cartelle sotto i mille erano un costo per lo Stato”) e dice di “non accettare lezioni da chi ha fatto il condono di Ischia e ha fatto uscire i boss dal carcere per il rischio Covid”, cioè Giuseppe Conte. Rivendica che è una legge di bilancio che “redistribuisce alle famiglie più povere, aiuta le aziende che sono le uniche che possono creare lavoro e quindi ricchezza” e che il motto del governo è “non disturbare chi può creare lavoro”. Un fisco “severo ma amico e non nemico” è l’obiettivo della legislatura.

“La flat tax a 85 mila euro non discrimina nessuno”. Avanti quindi con la riforma e il taglio del cuneo fiscale. Tutto bello e tutto vero. Peccato che gli undici condoni, tra cui la salva-calcio (“sono società sportive come le altre a cui è stato concesso di rateizzare un debito”) producono un mancato incasso per lo Stato di circa tre miliardi che potevano essere destinati al taglio del costo del lavoro, la cosa che più serve in assoluto. Per creare lavoro. Per combattere le disuguaglianze.

Sanità
Alla domanda cosa pensa di fare il governo per rispondere all’emergenza sanitaria negli ospedali e nei pronti soccorso, la risposta chiara è stata una sola: no al Mes (sanitario). Eppure un milione e mezzo di italiani sono senza medico di base e mancano ventimila medici in corsia. Nella Manovra ci sono solo due miliardi in più di cui 2/3 sono assorbiti dal caro energia. Gli italiani però spendono ogni anno oltre 40 miliardi in sanità privata. I conti non tornano. La premier non risponde.

S’impegna però sull’assunzione del controllo da parte dello Stato della rete Tim. Per l’elezione diretta del Capo dello Stato (“lo faremo, con o senza l’accordo delle opposizioni”) e per la riforma della giustizia. “Faremo la separazione delle carriere e tutto quello che serve, il coraggio non ci manca e il ministro Nordio è bravissimo”.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.