La pietra angolare di un partito riformista
Giustizialismo e Stato di diritto, nel paese di Beccaria il girotondo su Davigo: si inneggia alle manette e si perde il senso della politica
Da alcuni anni a questa parte, insistentemente, si è introdotta una nuova categoria politica: il giustizialismo, che, a noi “adulatori della costituzione, come riflesso condizionato della sinistra”, di origine togliattiana, non è mai piaciuto. A questo atteggiamento, o per meglio dire, a questa concezione dello Stato si sono rifatti tutti coloro che pensano che le Procure, i pubblici ministeri abbiano una funzione “purificatrice” della politica, siano i detentori della “moralità”, della “purezza” della politica. Da tempo il pensiero moderno ha distinto il diritto dalla morale e ha discusso sul significato di “giustizia”.
Ma ora, spesso, nel gergo politico-mediatico, si contrappone al giustizialismo, il garantismo, ovvero una categoria politica inesistente, per noi che siamo cresciuti nel “mito” della Costituzione, nata dopo un ventennio di dittatura fascista. Perché il giustizialismo non è contro il garantismo, ma attacca le basi liberali e democratiche di quello Stato di diritto, conquistato attraverso i secoli, per dirla con la Treccani, che “si fonda sia sulla separazione dei poteri sia sulla coscienza che solo il diritto può dare alla società stabilità e ordine, con le sue norme chiare e certe, generali e astratte (e quindi impersonali), un diritto sempre subordinato a quella legge fondamentale che è espressa dalla costituzione”. Ora, è sullo Stato di diritto che si costruisce un partito riformista, il resto viene dopo.
Ed è su questo che il Pds e il Pd hanno dimostrato lacune gigantesche, sposando, anche prima dell’apparizione delle 5S tesi giustizialiste, che non sono populiste, ma sono reazionarie o bolsceviche, a seconda dei punti di vista. Se si inneggia alle manette, e agli avvisi di garanzia, di solito, si è già perso il senso della politica e della battaglia politica: alla iniziativa politica si sostituisce la indagine giudiziaria, che non ha il compito di purificare la politica, ma di colpire i reati, e che comunque deve essere sottoposta a controprova di un dibattimento nei vari gradi di giudizio. L’articolo di qualche giorno fa di Davigo sul “Fatto” mi ha ricordato che molti facevano il girotondo per questo manettaro: Msi, estremisti di sinistra, pidiessini, ecc. Mi ha fatto venire in mente che questo dovrebbe essere il Paese di Cesare Beccaria e, tra le cose che ricordo con maggior orgoglio nella mia attività di amministratore, nella mia prima vita, c’è quella di aver organizzato un ciclo di iniziative per il 250° anniversario della nascita di Cesare Beccaria.
Tra le altre, ci fu la organizzazione con il “Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale” di un convegno alla Sala della Balla del Castello Sforzesco sul tema “Cesare Beccaria e la politica criminale moderna”. Presenti ministri di giustizia di tutti i Paesi, sotto l’egida delle Nazioni Unite, alla presenza del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, con l’introduzione del ministro Giuliano Vassalli e del presidente del Consiglio costituzionale francese Robert Badinter, con l’intervento del ministro della Difesa e presidente del CNPDS, Giovanni Spadolini, il convegno si svolse per tre giorni grazie alla passione e all’entusiasmo di Adolfo Beria d’Argentine, Procuratore Generale della Repubblica a Milano. E con lui decisi anche di distribuire in tutte le scuole medie di Milano “Dei delitti e delle Pene”.
Famoso per la sua battaglia per la abolizione della pena di morte (“né utile né necessaria”), ma anche per la condanna della tortura (“Mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti”) e per la proclamazione della presunzione di innocenza (“Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice”), Beccaria fu il primo ad affermare la esigenza di pubblicità come garanzia di giustizia (“pubblici siano i giudizi e pubbliche le prove del reato”) e a distinguere tra responsabilità penale e responsabilità morale, ad affermare la equiparazione tra pena giusta e pena necessaria, proporzionata al delitto (“uno dei più grandi freni ai delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di essa”; “quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, ella sarà tanto più giusta e utile”). E quanto alla carcerazione preventiva, Beccaria affermava che “essa non può precedere la sentenza se non quando la necessità lo richiede” e deve essere cautelare (“o per impedire la fuga, o per non occultare le prove dei delitti”) e “per non distruggere la dignità dell’innocente” deve durare il minor tempo possibile e dev’essere meno dura che si possa”.
Mentre leggevo Davigo, mi veniva in mente il principio di Beccaria: “Perché ogni pena non sia una violenza di uno, o di molti, contro un privato cittadino, deve essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi”. Ma dopo la caduta del Muro, anche una parte della magistratura inquirente (guarda caso quella milanese, non quella romana) si è sentita libera di colpire un sistema politico che dal 45 la teneva soggiogata, e presa dalla ricerca di un ruolo di protagonista nella politica e nell’asseto istituzionale del Paese, sospinta da forze estranee che volevano punire un Paese che si era atteggiato in modo autonomo rispetto al Medio Oriente e alla Östpolitik, si è lanciata in una operazione che, lungi dal debellare la corruzione, ha travolto le regole dello stato di diritto.
Giustamente l’altro giorno su “La Stampa”, Mattia Feltri scriveva un articolo del tutto condivisibile, dal titolo “Scuola di filosofia”: E poi arriva Piercamillo Davigo che, sotto un promettente titolo di prima pagina del Fatto Quotidiano (“Stiamo diventando uno Stato canaglia”), ieri ha detto la sua sulla percentuale eccessiva di detenuti in attesa di giudizio. A beneficio di chi poco sapesse di Davigo, una breve introduzione al personaggio impone di dire che è stato il più raffinato dei pubblici ministeri del pool di Mani pulite, da cui il soprannome di Dottor Sottile. Fra le numerose raffinatezze e sottigliezze, ha raggiunto grande popolarità quella secondo cui – a proposito dell’esorbitante profluvio di risarcimenti per ingiusta detenzione – quegli innocenti molto spesso sono colpevoli che l’hanno fatta franca. Un metodo logico sublimato ieri così. «L’alta percentuale di detenuti in custodia cautelare dipende in larga misura dalla bassa percentuale di detenuti definitivi».
Non è straordinario? Nella visione di Davigo, se si ritiene che siano troppi trenta detenuti su cento in attesa di giudizio, è sufficiente ribaltare il punto di vista e accorgersi che in realtà sono troppo pochi settanta detenuti su cento definitivi. Basta cioè aumentare il numero totale dei detenuti definitivi – rivedendo tutte le leggi premiali di cui godono i condannati – e quelli in attesa di giudizio saranno né uno più né uno in meno, ma la loro percentuale diminuirà. Problema magicamente risolto. È una scuola filosofica di antico pregio, i cui fondatori furono Gaspare e Zuzzurro, coppia comica di qualche decennio fa, quando il primo, ripetutamente deriso dal secondo per l’enorme naso, contrattaccò davighianamente: «Non ho il naso grosso, è la faccia che è piccola».
© Riproduzione riservata