Si può parlare del Golfo Arabo come di un nuovo baricentro della diplomazia internazionale? Alcuni segnali sembrano ormai indicare di sì, con Abu Dhabi, Riad o Muscat che stanno acquisendo un peso crescente nei processi di dialogo e mediazione, non solo in virtù della loro rilevanza energetica, ma anche per un approccio diplomatico pragmatico e multilaterale.

In un sistema internazionale sempre più frammentato, in cui i tradizionali centri di confronto multilaterale hanno ormai perso quasi legittimità, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Qatar mantengono relazioni praticamente con tutti, secondo il principio della cosiddetta “neutralità attiva”. Il caso degli Emirati appare emblematico. Il 29 aprile scorso, mentre il governo di Abu Dhabi approvava la ratifica della Comprehensive Economic Partnership Agreement con l’Ucraina, destinato a garantire alle merci di entrambi i paesi un accesso reciproco ai mercati, il ministro dell’Interno Saif bin Zayed Al Nahyan era a Mosca per firmare intese su sicurezza e lotta al crimine. Due gesti ravvicinati che rendono evidente la volontà emiratina di mantenere linee di dialogo aperte su più fronti. Anche l’Arabia Saudita segue una linea simile. Dopo aver mediato il rilascio di prigionieri tra Russia e Ucraina, ha ospitato nel 2023 un incontro con oltre quaranta Paesi per discutere della guerra, pur continuando la cooperazione energetica con Mosca.

Il Qatar, dal canto suo, svolge un ruolo attivo come facilitatore nei negoziati israelo-palestinesi, come mostrato nelle recenti fasi di crisi in Medio Oriente. Un elemento chiave di questo posizionamento è il ricorso a strumenti di soft power. Mondiali di calcio, Gran Premi di Formula 1, tornei internazionali, esposizioni universali: eventi pensati per rafforzare visibilità e consolidare reti politiche, economiche e culturali. Il soft power si traduce inoltre nella promozione di centri di dialogo interreligioso, sociale e scientifico: Abu Dhabi ospita la sede del “Documento sulla fratellanza umana” firmato da Papa Francesco e dall’imam di al-Azhar; a Riad si moltiplicano forum su clima, innovazione e sostenibilità.

A questa dimensione immateriale si affianca quella materiale, che attrae investitori e operatori globali: hub logistici come Jebel Ali, Hamad Port e King Abdullah Port; zone franche dedicate a settori specifici come tecnologia, media e biopharma; un ambiente normativo e fiscale competitivo che agevola l’insediamento di imprese e flussi di capitale. La finanza islamica si affianca a circuiti fintech regolati in modo flessibile, mentre collegamenti aerei e marittimi con India, Africa e Mediterraneo rafforzano la funzione di cerniera commerciale della regione. I fondi sovrani – ADQ, Mubadala, PIF, QIA – gestiscono asset per oltre 3 trilioni di dollari e operano come investitori istituzionali attivi in settori strategici, dalla transizione energetica alla logistica avanzata. La forza di questi Paesi non risiede nell’ambizione di farsi arbitri, quanto piuttosto nella capacità di offrire spazi in cui il dialogo può proseguire quando altri canali si interrompono.

È una diplomazia discreta ma costante, che in diversi casi ha permesso di mantenere canali aperti anche in contesti fortemente polarizzati. Ciò detto, non è ovviamente scontato che Abu Dhabi, Riad o Doha vogliano (o possano) diventare la nuova Svizzera, perché la loro centralità diplomatica si regge ancora in gran parte su fattori esterni — come l’instabilità altrui, la disponibilità di risorse finanziarie e un momento favorevole sul piano geopolitico — più che su una tradizione consolidata di mediazione multilaterale. Eppure, in un mondo dove si alzano muri e si chiudono porte, il fatto che qualcuno riesca ancora ad aprire stanze per il dialogo è raro. Custodire questi spazi non garantisce neutralità assoluta, ma implica una responsabilità crescente — e, con essa, una forma di potere sempre più riconosciuta.

Piercamillo Falasca

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