Troppo pochi per governare. Sufficienti per andare avanti. Dopo una maratona di dodici ore a palazzo Madama, il governo Conte 2 traballa ma non cade. Su 312 votanti, i Sì sono stati 156, 140 i No. Gli astenuti, cioè i renziani, sono stati sedici. Hanno tenuto con dignità, coraggio e orgoglio i 17 senatori di Italia viva (uno assente per Covid) che nel lungo dibattito, tra ieri e oggi. Hanno visto riconosciute nel merito le buone ragioni del loro dissenso. Ha fallito, per ora almeno, l’appello ai volenterosi a cui ancora ieri Conte ha dedicato molti passaggi dei suoi interventi. E non ha portato grandi frutti il pressing, le convocazioni, le confessioni e le lusinghe nei corridoi del Senato verso gli ex 5 Stelle su cui il premier aveva fatto affidamento rassicurato dai vertici 5 Stelle: Drago e Giarrusso hanno detto No a Conte e al Movimento che li aveva cacciati per scontrini e dintorni. Le buone notizie per il premier sono arrivate inaspettate da Forza Italia: hanno infatti votato la fiducia al governo la senatrice Maria Rosaria Rossi, ex tesoriere del gruppo e segretaria di Silvio Berlusconi e Andrea Causin. Tajani ha subito decretato che sono “fuori da Forza Italia”.

Non sono due voti che fanno “più larga e più coesa la maggioranza” come ha chiesto Conte. La Rossi ha votato la fiducia per motivi legati a vendette personale nell’inner circle del Cavaliere.
Traballa ma non cade, il Conte 2 che vuole diventare bis di se stesso. “Se questo governo non ha i numeri questo governo va casa” ha ribadito nella lunga giornata il premier. La maggioranza c’è, molto risicata ma c’è. E, nell’infinita galleria di paradossi di questa storia, Conte ha avuto la fiducia e può permettersi di non salire al Colle, grazie ad Italia viva. Due Si (Nencini e Ciampolillo) sono stati recuperati a votazione già chiusa e su questo ci saranno molte polemiche. Se infatti ai 140 No sommiamo i 16 senatori di Iv che si sono astenuti, i No sarebbero stati 156 come i Sì. Un pareggio che al Senato vale una sconfitta. E a quel punto Conte sarebbe stato costretto a salire al Quirinale per dimettersi. “Il nostro obiettivo oggi è prendere voti a sufficienza per dimostrare che Italia viva è irrilevante” spiegavano ieri all’ora di pranzo dallo staff del premier. Italia viva invece resta centrale e determinante. Con Renzi e i suoi Conte dovrà continuare a fare i conti. Oppure si dimette. Probabile quindi che già stamani salirà al Colle.

Potrebbe cominciare adesso un’altra partita. Il Quirinale, finché l’esecutivo ha la maggioranza, non può intervenire. Diverso se Conte sale al Colle e ammette la propria fragilità. Così come suonerebbe scorretto, per come è andata la conta ieri, provare a sostituire la maggioranza con i responsabili escludendo a prescindere una forza di maggioranza che ha chiesto di ripartire affrontando i problemi.

A palazzo Madama sembra la replica del 26 agosto 2019, quando cadde il Conte 1. C’è la ressa dei momenti che contano, telecamere che spuntano ovunque nei pressi dei tre ingressi per intercettare una trattativa per un voto in più. Perché fino all’ultimo minuto prima dell’ultima chiama le trattative sono state le vere protagoniste della giornata. Subito dopo le comunicazioni e la replica del premier e l’intervento di Matteo Renzi. Rocco Casalino ha vissuto tutta la giornata nella saletta del governo in Senato. E da qui ho mosso i suoi passi.

Con un obiettivo: drammatizzare la situazione, tenere bassa la conta dei Sì, prospettare la crisi (che nei fatti non è mai stata aperta perché Conte non si è mai dimesso) e persino il voto per spingere tutti a votare. I senatori ex 5 Stelle sono stati convocati tutti, uno per uno. Persino Marinella Pacifico, senatrice già con un piede nella componente Italexit con Paragone, Martelli e Gianrusso. Una che certamente non ha il profilo europeista richiesto da Conte e che infatti non li ha fatti neppure parlare. Palazzo Chigi ha chiesto la presenza dei senatori a vita: hanno risposto in due, Liliana Segre e Elena Cattaneo (Mario Monti frequenta normalmente l’aula). Non ce l’hanno fatta con l’archistar Renzo Piano e il Nobel Carlo Rubbia (dato invece in arrivo fino a fine mattinata”. Il presidente Napolitano non può certo correre i rischi del virus. Negli angoli del Senato come nei corridoi, davanti alla macchinetta del caffè e alla buvette, si tratta ovunque.

E’ il giorno della grande rivincita di Razzi e Scilipoti, i voltaggabana per eccellenza che i 5 Stelle e non solo hanno issato ad esempi del cinismo e dell’antipolitica. Si sono presentati ieri mattina nel salone Garibaldi, tra la buvette e la sala stampa. Razzi assicurava: “Date retta a Razzi, arrivano a 158”. E Scilipoti: “La nostra rivincita? E’ la democrazia, uno vale uno, più o meno”. Persino il presidente Conte, che in mattinata aveva ripetuto l’appello (“aiutatemi”) ai liberali, popolari, socialisti con solida vocazione europea e respiro riformatore per allargare la maggioranza, nella replica ha nominato uno dopo l’altro quei senatori in bilico nella speranza di strappare il loro Sì. Gli ex 5 Stelle Drago e Gianrusso, alla prima ho promesso di mettere il problema della denatalità al centro del programma e al secondo, catanese con il mito dell’antimafia, ha citato il giudice Borsellino. Corteggiamenti falliti. Ci ha provato con Quagliariello e con Nencini, l’unico che ha ceduto alle offerte. E dall’astensione è passato al Sì. Gli altri sono voti che per ora può solo corteggiare ma che tra qualche settimana potranno rafforzare la nuova maggioranza. Sono nomi con una storia e un prestigio politica. Quella qualità che al momento manca alla maggioranza “raccogliticcia” del Conte 2-bis.

Conte e Renzi. Lo scontro su come e con chi guidare il paese è diventato un duello tra il premier e un ex premier. E la personalizzazione, questa volta, non è stata decisa da Renzi. Sono stati loro il cuore della crisi. Sono loro il cuore della giornata. Conte ha difeso l’azione del suo governo e ha confermato che il rapporto con Iv è rotto: “Vi assicuro che è complicato governare con chi mina continuamente un equilibrio politico pazientemente raggiunto dalle forze di maggioranza. Con me non avete mai trovato la porta chiusa. Solo che a un certo punto avete deciso di andare a parlare fuori (la stanza del governo, ndr) e non più dentro. E questa non è stata la scelta migliore”. Portare fuori dalle riunioni notturne di palazzo Chigi i guai e le difficoltà del governo, averne denunciato l’inadeguatezza dopo mesi di incertezze: ecco la mossa che Conte non potrà mai perdonare a Renzi. Difficoltà non certo segrete se tutti gli interventi in aula dei gruppi di maggioranza (tranne quelli dei 5 Stelle) hanno invece denunciato tutto quello che non va, da Pierferdinando Casini a Riccardo Nencini, persino Mario Monti. “Le questioni sono state aperte ben prima dello strappo di cui vi siete stupiti” ha sottolineato Emma Bonino.

L’astensione del gruppo Italia viva è stata ufficializzata da Teresa Bellanova: “Le nostre non sono state mine (cit. Conte ndr) ma proposte fatte con serietà, disciplina e onore. Invece lei, che doveva mediare e cucire, ha fatto diventare la pandemia l’unica ragione della sua esistenza” e quando il gioco è stato chiaro “lei ha cessato di essere arbitro, ha deciso di diventare giocatore e si è messo a cercare responsabili”. Matteo Renzi ha scelto di spiegare, una volta di più, il perchè della crisi che “tecnicamente non c’è perché lei non si è dimesso”. C’è invece “una crisi politica perché da mesi vi chiediamo, e non da soli, una svolta che non è arrivata”. Ma il momento è adesso, ha detto Renzi, “ora o mai più” perché è adesso che sul fronte interno (per il Recovery plan) e su quello internazionale (Usa, l’arrivo di Biden, la Libia, la Turchia) si stanno decidendo i destini dell’Italia e non solo. “Invece di ascoltarci e di fare politica lei ha scelto di arroccarsi, di accusare noi di essere irresponsabili, lei ha messo al centro le poltrone e non le idee”.

Se Conte vorrà andare avanti a tutti i costi (non è chiaro come) il problema sarà soprattutto per il Pd. Il volto teso e preoccupato di Dario Franceschini seduto nei banchi del governo al fianco di Conte è stato lì a ricordarlo per tutta la giornata. L’uscita di Italia viva dal recinto del governo – ma non della maggioranza visto che sono assicurati i voti chiave – lascia gli ex compagni di strada alle prese con l’abbraccio grillino e il solipsismo di Conte. Non ci sarà più Renzi o Italia viva a cui poter far fare il lavoro sporco, insistere e rompere le scatole, richiamare l’agenda e i temi quando qualcosa non va come dovrebbe, ad esempio il Recovery plan. D’ora in poi dovrà farlo il Pd, non altri. E’ stato detto e scritto più volte che questa faccenda della crisi è stata l’ennesima pagina del congresso del Pd. Ora Zingaretti e Franceschini dovranno gestire il partito senza quel “motorino riformatore” che è stato Italia viva. Dovranno essere loro a fermare la spinta statalista e assistenzialista che è stata finora almeno la cifra dei governi Conte. Dovrà, il Pd, soprattutto fare i conti con quel partito di centro che si chiamerà “Insieme-Conte-Presidente” e che i sondaggi dicono che porterà via consenso ad un Pd che rischia di finire schiacciato a sinistra.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.