Una postura ribaltata. Ecco come si presenta il governo di Giorgia Meloni alla vigilia del decimo mese di vita. Forte e ed autorevole nella dimensione esterna, e chi l’avrebbe mai detto dei Fratelli nazionalisti, con Forza Italia e Lega convinti pacifisti e anche un po’ filoputiani. Assai più debole sul fronte interno. Non per colpa del lavorio attento delle opposizioni ma per sospetta inadeguatezza della squadra di governo.

Un esecutivo che è soggetto proponente di una nuova e diversa centralità mediterranea – percorso avviato da Draghi appena scoppiata la guerra – che ha appena incassato la fiche tunisina con il memorandum di domenica scorsa e il jolly della liberazione di Zaki che si porta dietro la rinnovata partnership con l’Egitto di Al Sisi; che sta per inaugurare la prima “Conferenza Internazionale su Sviluppo e Migrazioni” e che nel prossimo fine settimana volerà a Washington. Come vedremo, il vero sponsor e garante della politica estera meloniana.

E pensare che solo tre anni fa Giorgia Meloni aspettava con trepidazione sotto il tendone di Atreju Steve Bannon, l’ideologo di Trump e del suprematismo bianco. E ora sta per andare a colazione alla Casa Bianca con Joe Biden.
Ma anche un esecutivo talmente fragile che in autunno si parla ormai con buona certezza di un rimpasto della squadra di governo. Le tensioni sono ormai così tante da diventare strutturali. Pessima compagnia per un esecutivo convinto di avere il passo e i tempi della legislatura.

Vediamo la postura esterna, prima, che è una buona notizia per tutti. Il caso ha voluto che la condanna di Patrick Zaki arrivasse, dopo tre anni di calvario, proprio in queste ore e che la grazia concessa in neppure 24 ore suonasse come un grande successo del governo Meloni. E, va detto, del ministro degli Esteri Antonio Tajani in assoluto, in questo momento almeno, il partner più affidabile per la premier. Anche in vista della campagna elettorale per le Europee.

Il “momento” fa sì che la liberazione di Zaki sia diventata subito non un baratto con il caso di Giulio Regeni ma una questione di pura geopolitica. La diplomazia, italiana, europea, egiziana, ha subito celebrato la grazia come il più chiaro esempio della ritrovata e rinnovata partnership con l’Egitto di Al-Sisi. Che ha barattato, questa volta il termine è giusto, la libertà dello studente con un biglietto di prima classe al tavolo dove si discutono i tanti dossier che incrociano in questa delicatissima fase Europa, Occidente, Africa, a cominciare dalla stabilizzazione della Libia, e Medioriente. Crisi alimentare, crisi climatica, migrazioni, guerra, stabilità del nord africa, politiche energetiche e filiere delle materie prime: tutte le agende hanno bisogno in questo momento di avere l’Egitto stabile, forte e guidato da un leader almeno credibile. Quasi nessuna ha bisogno della verità su Carlo Regeni.

In questo quadro la Conferenza che si terrà domani alla Farnesina assume un valore speciale. E’ una scommessa di Giorgia Meloni: mettere nella stessa stanza i leader di quasi tutti gli Stati della sponda Sud del Mediterraneo allargato, del Medio Oriente e del Golfo, gli Stati Ue di primo approdo e alcuni partner del Sahel e del Corno d’Africa, i vertici delle Istituzioni europee e delle Istituzioni finanziarie internazionali per affrontare le emergenze e lanciare una strategia di sviluppo condivisa. Vasto ed ambizioso programma, diceva qualcuno.

Ecco cosa si legge nella presentazione della Conferenza: “Avviare un percorso internazionale per attuare misure concrete per la crescita e lo sviluppo del Mediterraneo e l’Africa; affrontare le cause profonde dei flussi irregolari per sconfiggere l’attività criminale dei trafficanti; individuare soluzioni a tutela dell’ambiente cogliendo le sfide della diversificazione energetica e del cambiamento climatico”. Di tutto e di più. Però coinvolgere l’Africa è la strada giusta. Qualche anno fa – era in carica il governo Renzi – quando si diceva “aiutiamoli a casa loro”, le destre e per prima Meloni ridevano e burlavano. La Conferenza di domenica è un appuntamento chiave per la premier. Parola chiave “approccio integrato” in sei settori: agricoltura; energia; infrastrutture; educazione-formazione; sanità; acqua e igiene.

Non è certo il “blocco navale” invocato in campagna elettorale ma serve a dare sostanza al “Piano Mattei” e deve assolutamente dare un segnale a Salvini, alla Lega e anche ai suoi governatori che sui territori non sanno più come fare a spiegare che gli sbarchi sono quintuplicati.

E arriviamo così al fronte interno. I problemi oggettivi sono noti: Santanchè, Delmastro e La Russa. La ministra del Turismo affronterà mercoledì la mozione di sfiducia ma non sarà quello il giorno. La premier è infastidita da quanto sta venendo fuori sull’attività manageriale della ministra. Non è l’avviso di garanzia a fare la differenza ma la decisioni che assumerà la procura a settembre. E anche, i malumori del ministero del Turismo da dove non giungono gli apprezzamenti attesi. Delmastro è blindato, anche dovesse andare a giudizio e almeno fino al terzo grado. Non è escluso che si esplori per lui un incarico di governo ma in diverso ministero.

La Russa non si tocca, anche perché ha capito di aver esagerato e si è messo zitto. Come ha fatto, da tempo, il ministro-cognato, Francesco Lollobrigida, che dopo qualche intemerata sulla “sostituzione etnica” si è messo pancia a terra a lavorare molto e parlare meno. Giorgia apprezza. Ieri Il Foglio ipotizzava una candidatura alle Europee: nel caso sarebbe una promozione, Commissario europeo per l’agricoltura. Sempre però che vada in porto la vittoria dell’alleanza Popolari e Conservatori. Il pasticcio sulla giustizia ha fatto pervenire a Nordio il suggerimento di parlare meno e, nel caso, di essere più politico. Ma la sua casella non sembra a rischio.

Come quella del ministro della Cultura, l’amico Gennaro Sangiuliano. Piuttosto coi sarà da accontentare in qualche modo Salvini che ormai cerca lo scontro su tutto. L’ultim fronte sono le tasse: perchè Meloni non taglia le tasse come aveva promesso? Saldo e stralcio, condoni, flat tax: i cavalli di battaglia di Salvini ormai sono tigri di carta. La parola chiave per tutto questo è una sola: rimpasto. In autunno, però.

Claudia Fusani

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