Un tema sicuramente non al centro del dibattito pubblico, ma non per questo meno interessante (almeno per gli “addetti ai lavori”), è quello dove lo Stato decide se costituirsi o meno parte civile nei processi penali contro i propri dipendenti. L’Amministrazione di appartenenza, anche alla luce di numerose pronunce della Corte costituzionale, ha l’obbligo di garantire la sua credibilità presso il pubblico, “cioè sul rapporto di fiducia dei cittadini nei confronti dell’Istituzione che può rischiare di essere incrinato dall’ombra gravante su di essa a causa dell’accusa da cui è colpita una persona attraverso la quale l’Istituzione stessa opera”. Il principio di buon andamento dell’azione amministrativa, previsto dall’articolo 97 della Costituzione, è il faro a cui attenersi: i soggetti che occupano un pubblico ufficio hanno pertanto il dovere di adempiere alle funzioni che gli sono affidate “con disciplina ed onore”, come recita invece l’articolo 54 della Costituzione. Dunque, proprio per gli interessi in gioco, tali principi necessitano di una tutela specifica.

In altre parole, la tutela dell’interesse pubblico all’irreprensibile svolgimento delle attività istituzionali della Pa verrebbe seriamente minacciato in termini di credibilità se l’Amministrazione di provenienza del dipendente accusato di aver commesso un illecito penale rimanesse “inerte” nei suoi confronti. Le decisioni del Ministero della giustizia a carico dei magistrati che finiscono sotto processo sono però quanto mai imperscrutabili. A fronte di una medesima fattispecie di reato, avvenuto addirittura nello stesso periodo, la decisione sulla costituzione di parte civile o meno spesso è opposta. E questo non può non creare nel cittadino il sospetto che ci sia stato un odioso “doppiopesismo” che poi non aiuta certo ad avere fiducia nell’Istituzione.

I casi Davigo e Palamara

Due vicende penali, ampiamente balzate agli onori delle cronache e che hanno determinato una diversa decisione, sono quelle che hanno riguardato gli ex presidenti dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo e Luca Palamara, entrambi in passato anche ex componenti del Consiglio superiore della magistratura. Le due toghe sono state accusate dello stesso reato: rivelazione del segreto d’ufficio. Davigo, in particolare, per la diffusione dei verbali delle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara a proposito della Loggia Ungheria, e quindi per realizzare una attività di discredito nei confronti del pm Sebastiano Ardita; Palamara, invece, per aver agevolato la pubblicazione sui giornali di documenti riservati che riguardavano l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, e dunque per screditare quest’ultimo mediante una campagna di stampa.

La scelta diversa

Il processo nei confronti di Davigo è giunto questa settimana alla sentenza di secondo grado. L’ex pm di Mani pulite ha riportato in entrambi i gradi di giudizio una condanna ad un anno e tre mesi di carcere, pena sospesa e non menzione sul casellario giudiziario. Per quello di Palamara, invece, il processo è ancora nella fase del dibattimento e la sentenza di primo grado è attesa prima dell’estate. Nei confronti di Davigo, l’amministrazione ha scelto di non costituirsi. Discorso diverso per Palamara dove la costituzione è avvenuta e l’Avvocatura dello Stato in udienza ha chiesto al giudice di essere risarcita, per il danno d’immagine provocato con la sua condotta, la stratosferica cifra di un milione e duecentomila euro. Nei confronti di Palamara, per avvalorare la maxi richiesta, è stato anche depositato il libro bestseller “Il Sistema” scritto dal magistrato con il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti e dove si raccontano come avvenivano le nomine al Csm.

“L’idea che l’Avvocatura, e quindi che lo Stato chieda a Palamara un risarcimento non per ciò che ha fatto insieme a tutta la magistratura associata per dieci anni, ma per ciò che ha raccontato di aver fatto è una cosa incredibile”, dichiarò l’allora presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza. “L’Avvocatura può lamentarsi solo se Palamara ha scritto delle falsità”, ma il racconto “è quasi tutto fondato su Whatsapp che sono stati acquisiti in un processo penale. Il danno d’immagine – aggiunse Caiazza – lo avrà portato la magistratura nell’aver agito in quel modo, non certo Palamara nel raccontarlo”. Va infine ricordato che, sempre per rimanere a via Arenula –  non esiste una statistica da cui poter risalire al numero ed al tipo delle decisioni prese in merito alla costituzione di parte civile. Sarebbe quindi quanto mai opportuno, in un’ottica di trasparenza, fornire i dati ed evitare che si possa ingenerare nel cittadino il sospetto che la decisione di costituirsi parte civile o meno sia affidata al caso o, peggio, a criteri legati a dinamiche che con la giustizia non hanno nulla a che vedere.

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Giornalista professionista, romano, scrive di giustizia e carcere