Donald Trump è sembrato sicuro. Quando gli è stato chiesto se si aspettasse un passo indietro della Cina, il presidente degli Stati Uniti ha risposto con un secco “no”. Lo scontro c’è ed è aperto. E anche se The Donald spera ancora in un accordo e ha più volte detto che in realtà Pechino vorrebbe un patto ma che non sappia come farlo, il repubblicano sa che il presidente cinese, Xi Jinping, non può permettersi aperture dopo i dazi al 125%. Tariffe che, come ricordato ieri da un funzionario Usa alla Cnbc, sarebbero in realtà addirittura al 145%, visto che si sommano a un 20% messo già per il dossier fentanyl.

La tensione è alta. Da Pechino, il portavoce del ministero degli Esteri Lin Jian ha confermato anche ieri la linea del suo governo: la Cina non vuole combattere “ma è pronta a farlo”. E nonostante la Casa Bianca continui a rilanciare messaggi di forza e di piena capacità di gestione della crisi scatenata dagli annunci sulle tariffe, tra gli esperti e all’interno dell’amministrazione Trump sono in molti a pensare che la guerra commerciale con il Dragone possa essere più lunga del previsto e non priva di conseguenze negative per gli Stati Uniti. Certo, come potenza esportatrice e come principale vittima delle misure di The Donald, la Cina non può brindare ai provvedimenti degli Usa. Ma la Repubblica popolare non è un interlocutore come gli altri. La sua forza non è paragonabile a quella dei partner commerciali Usa in Europa o nel resto del mondo. E Xi potrebbe pensare a dei calcoli strategici ben diversi da quelli di altri governi e a leve che altri Stati non hanno. E non è certo il taglio dell’import dei film americani, deciso ieri dal governo di Pechino, a rappresentare il vero “bazooka” nelle mani di Xi.

Innanzitutto, il leader cinese ha un’arma che terrorizza Wall Street: la svalutazione dello yuan. Già ieri gli analisti segnalavano come la moneta cinese sia ai minimi dal 2007. E questo strumento, se può rivelarsi anche un boomerang per Pechino, di sicuro potrebbe avere la capacità di ridurre al minimo (se non a zero) gli effetti dei dazi sull’export cinese. Inoltre, Xi potrebbe accettare la sfida anche per calcoli politici e strategici. Fare concessioni a Washington apparirebbe come un segnale di debolezza agli occhi del mondo, specialmente ai vicini asiatici. E, spiega la Cnn, Xi può far digerire alla sua popolazione gli effetti negativi delle decisioni Usa mitigandole con la produzione interna e rafforzando la propaganda antiamericana. Questo non significa che l’opinione pubblica del gigante asiatico non abbia un peso nelle scelte di Xi. Ma di certo non ha un ruolo così determinante come nel sistema politico americano, dove invece gli effetti negativi sulle tasche del cittadino pesano anche in termini di consensi e di voti. E Trump deve pensare anche alle elezioni di medio termine con un eventuale aumento dell’inflazione.

Infine, c’è un tema strategico. Il vortice di tensione generato da Trump, con dazi, minacce, repentine sospensioni delle tariffe e frasi anche molto dure (se non offensive) verso i partner, potrebbe rafforzare l’immagine di Pechino quale potenza benefica per il commercio mondiale. E non è un caso che anche ieri il portavoce Lin Jian abbia parlato dell’aumento dei dazi come “una palese sfida ai princìpi universali e uno scontro con il mondo intero”. “Questo viola seriamente i diritti e gli interessi legittimi di tutti i Paesi, viola gravemente le regole del Wto, danneggia il sistema commerciale multilaterale basato su regole e compromette la stabilità dell’ordine economico globale”, ha ribadito il portavoce.

E se dal ministero del Commercio cinese è arrivato l’invito a “incontrarsi a metà strada”, dall’altro lato continuano le trattative con gli altri partner commerciali per mettere a punto una strategia di risposta e improntata alla stabilità. Il ministro Wang Wentao ha parlato con il commissario al Commercio dell’Unione europea, Maroš Šefčovič, per discutere di veicoli elettrici e di come evitare che l’Europa sia inondata da merci cinesi deviate dopo i dazi americani. Dopo le critiche Usa al governo spagnolo per la visita in Cina del premier Pedro Sánchez, Pechino ha risposto difendendo Madrid e accusando ancora una volta Washington. E la Repubblica popolare ha deciso anche di mandare un avvertimento a Taiwan e alle sue mosse rispetto agli Stati Uniti. “Più velocemente si inginocchiano, più sanguinano”, si legge in un editoriale del Beijing Daily, giornale legato al Partito comunista cinese.