Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Yemen e infine l’Iran. Ely Karmon, decano dei ricercatori dell’International Institute For Counter-Terrorism – il celebre Ict di Herzliya – letteralmente snocciola i fronti aperti di Israele. «Senza contare quello interno», osserva. «Le debolezze del governo, con elementi di estrema destra, e l’opposizione divisa, non aiutano a definire una strategia omogenea».

Karmon, si parla sempre di Gaza. Cosa succede in Cisgiordania?
«La situazione è complessa. Nel nord della Samaria, bisogna sgominare le frange restanti di Hamas e Jihad Islamica. A volte le forze di sicurezza della Anp aiutano, ma la loro leadership è sempre più debole».

C’è poi il Libano
«Dove il cessate il fuoco resta fragile. L’esercito regolare si è impegnato nello smantellamento delle infrastrutture militari di Hezbollah nel Sud del Libano. Tuttavia, il Segretario generale di Hezbollah, Naim Qassem, ha detto che i suoi uomini non rinunceranno alle armi. I campi profughi palestinesi, a loro volta, sono una molla a trazione. In una sua recente visita a Beirut, Abu Mazen si è impegnato a disarmare le milizie di Fatah».

Poi ci sono due teatri più tranquilli: Siria e Iraq
«Tranquilli all’apparenza. In Siria, la deposizione di Assad ha chiuso un capitolo decennale di dittatura. Connesso con la crisi di Hezbollah, questo ha segnato la ritirata degli sciiti da quel fronte. Gli Stati Uniti si fidano del nuovo regime. Noi siamo più cauti. Oggi la Siria è sotto l’influenza dalla Turchia, che, nonostante gli accordi, prosegue la sua lotta anti-kurda. Ankara mira al controllo del nuovo esercito siriano, preparando così una sfida verso Israele. Inoltre, il Paese resta rifugio di cellule jihadiste. Piccole, autonome e difficili da rintracciare. Trump ha chiesto di espellere i vecchi jihadisti stranieri, alleati con l’Hts del presidente Ahmed Sharaa e poi inquadrati accettati nella nuova armata siriana».

Dell’Iraq si parla ancora meno
«A Bagdad il governo non è fonte di tensione. Tuttavia, le milizie sciite, per quanto parzialmente strutturate nelle forze regolari, sono anche al soldo di Teheran, rappresentando un potenziale elemento di disturbo qualora la situazione con il regime degli Ayatollah dovesse peggiorare».

Appunto, andiamo in Iran: che probabilità ci sono che Israele attacchi?
«Washington preferisce la soluzione diplomatica, di conseguenza, Israele ha pochi spazi di manovra».

Quindi Washington è più un ostacolo che un sostegno per voi?
«Trump è un leader che cerca risultati immediati, anche a costo degli interessi israeliani. Ha un rapporto stretto con le potenze del Golfo, che non ha interesse a compromettere. Biden, invece, pur con meno margine di manovra, era un vero amico di Israele. Trump può provocare un terremoto interno nello Stato ebraico».

In che termini?
«Potrebbe essere l’unico ad avere la forza per provocare la caduta di Netanyahu. Ha una strategia centrata su sé stesso, mentre Biden, nonostante i limiti, manteneva un impegno verso i valori democratici e la sicurezza di Israele».

A un attacco israeliano all’Iran, non si può escluderne in opposto senso di marcia
«Il problema è duplice. C’è la sua corsa al nucleare. Attualmente, i centri di arricchimento di uranio di Natanz ed Esfahan hanno raggiunto una capacità del 60%, utile per produrre quattro o cinque ordigni. Il regime può arrivare al 90% di uranio arricchito. D’altra parte, non ha ordigni per i missili a lunga gittata».

Questo scenario in che tempi potrebbe concretizzarsi?
«Un anno e mezzo. Non di più».

Infine lo Yemen. Da conflitto fuori quadrante, quello con gli houthi, si è trasformato in un problema di portata internazionale
«Il leader Houthi, Abdel Maliq al-Houthi, nutre ambizioni di leadership regionale. Ha intuito che la crisi di Hezbollah ha creato uno spazio da colmare. Vanta un legame diretto con Teheran, ma anche con la Russia e la Cina. La prossimità con il Corno d’Africa gli permette di reclutare nuove leve e organizzare manifestazioni di propaganda».

Come hanno fatto a evolversi così rapidamente da un punto di vista militare?
«Grazie all’Iran, che ha creato una catena di fornitura di armi sempre più sofisticate che passano di nascosto dall’Oman, quindi fuori dai controlli delle rotte navali e dai porti colpiti da Usa e Israele».

Israele è l’unico a reagire?
«La mancanza di una coalizione militare efficace in Yemen limita l’impatto delle operazioni aeree israeliane. L’aeronautica israeliana è riuscita a mantenere intatta la propria flotta. Gli Usa hanno subito perdite. Ma il perno sta nella volontà politica. I negoziati Stati Uniti-Iran condizionano anche questa guerra in cui Israele è in prima linea».