Letture
Lo scaffale
I lunghi marciapiedi della vita. L’America secondo Philip Roth

«Io scorro veloce lungo i marciapiedi della vita»: è un personaggio fondamentale di Philip Roth che dice così, Mickey Sabbath (“Il teatro di Sabbath”, 1995), ma può anche darsi che sia Roth stesso che sta parlando di sé. In effetti suona come una frase perfetta, per lui, per la sua letteratura che realmente “scorre” lungo ben trentuno romanzi: che “i marciapiedi della vita” siano proprio i suoi libri? Bravo, dunque, Antonio Cennamo, gran conoscitore della letteratura americana, a scovare quella frasetta illuminante di Roth per illuminare il continuo gioco di specchi fra la vita, cioè la vita di Roth, e la letteratura, sapendolo fare forse come nessun altro.
Cennamo, in questa raccolta dei suoi pezzi per il blog “Telegraph avenue”, che appunto si intitola semplicemente come il suo blog (Argon edizioni), ci spiega in poche righe il nucleo della poetica del grande scrittore di Newark: impresa non semplice per un autore che – per così dire – sfugge da tutte le parti, un po’ carnefice un po’ vittima, un po’ volgare un po’ sublime, un po’ terra terra un po’ visionario, sicché con lui si deve sempre ingaggiare una lotta per afferrare il bandolo di un discorso che fa credere di poter arrivare a una verità che ovviamente non arriva mai. E fa brillare, Roth, l’illusione del Grande Romanzo Americano – cui si avvicinò con “Pastorale americana”, che per una generazione almeno rappresentò quello che Scott Fitzgerald fu per molte generazioni.
Questa è probabilmente la vetta rothiana dove – nota Cennamo – la forza sta nell’«intreccio tra le vicende familiari e la storia della nazione», oltre che nella grandezza dei personaggi, tra tutti lo “Svedese”: «Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico nel nostro quartiere di Newark, anche per gli adulti della generazione successiva a quella del vecchio ghetto cittadino di Prince Street che non erano ancora così perfettamente americanizzati da restare a bocca aperta davanti alla bravura di un atleta del liceo».
Nella vicenda che ruota attorno allo Svedese ci sono tutte quelle rises and falls, ascese e cadute, che sono il paradigma dell’America; ed è per questo che, anche se forse non è il più “bello”, “Pastorale americana” è il più amato dei romanzi di Roth. Tra i quali ci sono inevitabilmente grandi ascese e qualche caduta, ma a tanti anni dalla sua morte vale la pena di esplorare, o ri-esplorare, qualche titolo forse dimenticato: “Patrimonio”, per esempio, altissimo e commovente distacco tra figlio e padre; forse il primo lontanissimo romanzo, “Goodbye, Columbus”, dove in poche pagine c’è già mezzo Roth; l’ultimo, “Nemesi”, la malattia, l’incombenza della tragedia.
Nel suo libro Cennamo parla anche di moltissimi altri autori, praticamente tutti i grandi – «più che un saggio, vuole essere un vademecum, una mappa per orientarsi nella letteratura nordamericana degli ultimi cento anni, da John Fante a Tiffany McDaniel, attraverso quaranta autrici e autori» – ma se qui ci siamo soffermati su Philip Roth è non solo perché è il più grande di tutti, ma anche per riprendere la notizia della prossima ripubblicazione della sua opera da parte di Adelphi con gran parte di nuove traduzioni. Ha detto benissimo Roberto Colajanni, direttore editoriale e amministratore delegato di Adelphi: «Roth è già finito (più volte) all’inferno ed è già stato (altrettante volte) santificato, per motivi che oggi appaiono piuttosto futili. Una volta spazzata via la sua leggenda di grande provocatore politicamente scorretto o eroe libertino depravato, ci si può finalmente dedicare solo a quello che ha scritto. Un’opera di una vastità e di una varietà stupefacenti, che dubito molti lettori italiani possano dire di conoscere davvero. Perché per capirlo bisogna leggerlo tutto. Come in un cubo di Rubik, bisogna completare ognuna delle sue facce, e Roth ne ha molte».
Non si conoscono ancora i primi romanzi che verranno pubblicati: che sia il formidabile “Complotto contro l’America” nel quale Roth immagina gli Stati Uniti in mano al nazista Lindbergh? Di questi tempi… Ma al di là di questo, di certo tra i “rothiani” l’attesa è grande, con la speranza che il vecchio Philip acchiappi i più giovani che ancora non conoscono i suoi “marciapiedi della vita”.
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