E niente, anche stavolta la cronaca di casa ci ha messo lo zampino. Una volta sono i trattori, quella dopo è Salvini che ne inventa una delle sue, una volta è la Santanchè. Ieri la lancia nel fianco alla premier in missione in Libano l’ha puntata la sua “cara amica” Ungheria.

A Budapest il giudice Josep Sos ha negato i domiciliari a Italia Salis, l’insegnante italiana di 39 anni in carcere da tredici mesi nel carcere di Gyorskocsi con l’accusa di “aver aggredito in modo potenzialmente letale” alcuni estremisti di destra a febbraio del 2023 quando l’Ungheria celebra la giornata dell’“orgoglio nazista”. Ma quel che è peggio è che la donna è arrivata in aula ancora una volta legata come un cane con una catena che parte da un cinturone in vita e da qui arriva ai polsi e alle caviglie.

Un’udienza affollata, presenti molti parlamentari italiani di quattro partiti diversi, Pd, Iv, Avs, M5s, il disegnatore Zerocalcare ma neppure un rappresentante della maggioranza. Dai racconti dei presenti, ha colpito la durezza e l’arroganza con cui il giudice e il sistema hanno spezzato ogni speranza. E questo pur avendo l’avvocato ungherese Gyorgy Magyar e i colleghi italiani Eugenio Losco e Mario Straini rispettato tutte le procedure per ottenere gli arresti domiciliari in Ungheria.

Il padre Roberto, come aveva raccontato due settimane fa dal palco della Leopolda in una commovente testimonianza, è stato a Budapest in questi mesi, ha affittato un appartamento con le caratteristiche per ottenere i domiciliari. Anche il governo e il ministero della Giustizia italiana avevano raccomandato di tentare questa strada. Tutto inutile. Le speranze si sono frantumate in pochi secondi, quelli necessari al giudice Sos a pronunciare due frasi definitive: “Le circostanze non sono cambiate” e “13 mesi di carcere non sono poi così tanti”.

Se ne riparlerà a maggio, nella terza udienza, al netto di ulteriori rinvii. La domanda, legittima, è cosa ha realmente fatto in queste settimana palazzo Chigi, la Farnesina e il ministero della Giustizia per tutelare la cittadina italiana. La premier Meloni, i ministri Tajani e Nordio avevano chiesto di poter lavorare in silenzio sul dossier Salis pur avvertendo che la magistratura magiara è autonoma e quindi non sensibile alle richieste del presidente Orban.

“Non condivido la scelta di condurre una detenuta in catene e il giudice ha sbagliato a non concedere i domiciliari – ha detto ieri sera il ministro degli Esteri Tajani – Guai però a politicizzare il caso, dobbiamo agire con diplomazia, serietà e prudenza. Lo scontro con la giustizia ungherese non migliora la situazione”.

Immediata la replica del ministero degli Esteri ungherese: “L’Ungheria è uno stato di diritto e il governo non interferisce in nessun modo nelle competenze della magistratura”. L’Ungheria non vedeva l’ora di poter rivendicare di essere “uno stato di diritto” – e quindi l’autonomia della magistratura – che è uno dei tanti motivi per cui la Commissione Ue ha congelato trenta miliardi di fondi europei al governo di Orban. Il paradosso è che Salis diventa così la “prova” che in Ungheria vige lo stato di diritto. Peccato che le scene viste anche ieri, la detenuta in catene e le condizioni della detenzione, non rispettino in alcun modo i criteri della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Amica di Orban? Oppure ostaggio di Orban? È proprio questo il punto che interroga la premier in missione in Libano (dove il premier Najib Mikati l’ha confusa con la segretaria particolare Patrizia Scurti) e i suoi rapporti “privilegiati” con l’amico Viktor. La verità è che adesso più che mai Giorgia Meloni ha bisogno dell’amico e leader magiaro. Orban è infatti il suo “piano B” qualora andasse male “il piano A” che prevede la rielezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione con una maggioranza diversa da quella attuale e dove i Conservatori, la famiglia politica di cui Giorgia Meloni è presidente, diventassero l’ago della bilancia. Nel “piano A” Meloni ha bisogno dei voti di Orban e del suo partito Fidesz (al momento senza una casa perché cacciati dal Ppe tre anni fa) per essere il terzo gruppo nell’europarlamento dopo Ppe e S&D ma prima degli estremisti di Identità e Giustizia (da qui gli strali di Le Pen sabato scorso dal palco nazionalista organizzato a Roma da Salvini).

Se però “il piano A” detto anche von der Leyen dovesse andare male – e al momento la cosa è considerata possibile – Meloni deve tenere pronto “il Piano B” che, ancora una volta, ha in Victor Orban la carta fondamentale. Il leader magiaro è infatti l’unico che può garantire a Meloni l’agibilità politica in un’Europa dove le destre dovessero prendere il sopravvento e tentare di sostituire i Socialisti nella nuova maggioranza. Orban è anche l’unico che tiene aperto il canale con Donald Trump e con quell’America a cui Savini non ha mai smesso di occhieggiare. Orban è la garanzia che il sogno di Salvini (una maggioranza europea di destre e popolari) possa avverarsi. Il leader magiaro tiene il banco e Meloni non lo farà certo saltare per la dignità di Ilaria Salis

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.