Gli ayatollah del populismo giustizialista, puntuali come un orologio atomico, sono arrivati anche questa volta. “L’impuro” del giorno da lapidare in pubblica piazza (o social, se preferite) è il candidato del centrodestra alla presidenza della Regione Lazio, Francesco Rocca. Premesso che se fossi residente nel Lazio non lo voterei, darei la mia preferenza ad Alessio D’Amato, straordinario assessore alla salute della regione uscente.

E premesso, altresì, di essere convinto che se fosse accaduto al contrario qualcuno della destra avrebbe alzato le barricate e utilizzato toni ben più pesanti e primitivi, credo che questa vicenda sia più che emblematica. La storia è tutta qui: Rocca, nel 1984, a diciannove anni, subì una condanna a tre anni per droga. Un anno lo scontò ai domiciliari, il resto in una comunità. Forse memore delle parole di Jim MorrisonNon è forte chi non cade, ma chi ha la forza di rialzarsi”, Rocca, subito dopo aver scontato la pena, si laureò in giurisprudenza, divenne avvocato, ma soprattutto consacrò la propria vita al volontariato, prima alla Caritas e poi alla Croce Rosse italiana, di cui è stato per un decennio presidente nazionale.

Una storia di riscatto, un esempio di resilienza, parola tanto abusata. E invece per il solito circolo fariseo-giustizialista uno così non dovrebbe fare politica. Non dovrebbe più campare. Uno così andrebbe chiuso in cella e “la chiave buttata per sempre”. Rocca è l’esempio di ciò che la Meloni e Salvini non vogliono ascoltare: l’azione rieducativa oltre quella educativa della pena. Educativa, nel senso che funge da deterrente al commettere reati.

Rieducativa, per il reinserimento nella società del colpevole, affinché non commetta nuovi reati. Se magari, da questa candidatura, traessero un insegnamento che vale per tutti eviteremmo i suicidi in carcere, il sovraffollamento e valorizzeremmo le pene alternative: come lo è stato il servizio civile per Rocca. Occorrerebbe una diversa idea di umanità.