«C’è solo un modo per fermare Netanyahu: bombardare Tel Aviv, Haifa, Acri, Nahariya, Safed e Dimona con missili di precisione e centinaia di droni suicidi. Se ciò non accadrà, questi massacri continueranno», questo è il pensiero delle bande più radicali, vicine ad Hamas, che fanno parte del corpo dei guardiani della rivoluzione e che sono presenti all’interno del clero sciita della Repubblica islamica iraniana. In queste difficile ore le ali più intransigenti e fanatiche si scontrano con quelle più dialoganti presenti all’interno del regime, dopo ripetuti annunci e rinvii di nebulose azioni di ritorsione con lanci di missili contro Israele per vendicare l’onorabilità ferita dall’uccisione nel cuore di Tehran del numero uno di Hamas.

La tripla dichiarazione rilasciata venerdì scorso dai leader di Stati Uniti, Qatar ed Egitto, con la quale si chiedeva un immediato cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, ha esercitato una notevole pressione diplomatica su Israele. Tuttavia è stata accolta con favore a livello internazionale e nel mondo arabo, ma non dai proxi di Teheran, quali Hezbollah ed Hamas. Quest’ultimo ha fatto sapere che non intende partecipare ai colloqui di Doha o del Cairo se non sulla base delle condizioni generali ribadite ai mediatori egiziani tramite Khalil al-Hayya dal nuovo capo politico a Gaza, Sinwar. Che chiede il ritiro completo di Israele da Gaza, il rilascio di tutti i prigionieri palestinesi di alto rango (come Marwan Barghouti e Ahmed Saadat), l’abbandono del piano postbellico che prevede che l’Autorità nazionale palestinese amministri Gaza sotto la supervisione di una forza internazionale.

Le autorità iraniane non si sono ancora riprese dal trauma subito il 31 luglio scorso, quando Israele nell’arco di tempo di appena otto ore ha eliminato – nel cuore di Teheran mentre era in corso la cerimonia di insediamento del presidente Pezeshkian – il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh e il numero due di Hezbollah a Beirut. Queste due uccisioni hanno messo a nudo la vulnerabilità della Repubblica islamica e la sicurezza dei capi pasdaran e dello stesso clero sciita. L’Iran ed Hezbollah hanno di colpo perso buona parte della loro capacità di deterrenza e ora si trovano di fronte a un dilemma politico: una risposta debole eroderebbe ulteriormente la loro deterrenza e incoraggerebbe Israele ad andare avanti nel decapitare le organizzazioni palestinesi che mirano alla distruzione dello Stato ebraico; ma se colpissero troppo duramente darebbero a Bibi il pretesto per lanciare una guerra più ampia.

Un altro successo determinato dall’eliminazione di Haniyeh è quello di aver messo a nudo il fatto che il defunto capo politico di Hamas non godeva di un grande favore a Gaza perché era ritenuto troppo lontano dalla sunna, la Fratellanza musulmana; troppo vicino a Teheran, un leader senza alcun peso e con molti nemici intorno. La sua morte ha ora messo in evidenza che Hamas è assimilabile alla sua ala militare che ormai controlla tutta l’organizzazione, non a caso il consiglio della shura ha scelto Yahya Sinwar che vive nei suoi tunnel sotterranei a Gaza, ricercato numero uno perché considerato uno dei più crudeli terroristi palestinesi che ha inoltre ideato il pogrom nei kibbutz il 7 ottobre.

La perdita di deterrenza di Iran ed Hezbollah appare in queste ore in tutta la sua evidenza con il balletto di “attacco o non attacco”, “attacco forte o debole”. Inoltre Teheran aveva già mostrato una perdita della sua capacità di deterrenza il 13 aprile scorso quando mise in atto un attacco contro il territorio israeliano lanciando oltre trecento missili, quasi tutti intercettati e distrutti o finiti fuori bersaglio. Si trattò di un attacco forte, ma privo di una reale capacità offensiva, totalmente in efficace sia militarmente che diplomatica. Tehran si volle vendicare dell’attacco subito al quartier generale delle Forze Qods a Damasco in Siria, dove furono uccisi 7 comandanti pasdaran. Ebbene, quella azione di ritorsione non fu sufficiente a limitare la potenza militare e la determinazione di Israele nella sua ferma intenzione di neutralizzare Hamas e tutti i proxi dell’Iran nella regione. E dunque ciò contribuisce a far sì che Teheran usi molta cautela in una eventuale risposta militare. L’Iran e i suoi proxi sanno che una risposta troppo forte potrebbe indurre Netanyahu a lanciare una campagna militare devastante contro Teheran, che oltretutto gli farebbe riscuotere successo nell’opinione internazionale per il fatto che essa sarebbe giustificata dal legittimo diritto di autodifesa. Teheran per questo continua a ripetere di essere contraria a qualsiasi conflitto regionale a tutto campo.

Tutto fa pensare dunque che l’Iran non reagirà in maniera forte nei confronti dello Stato ebraico e forse non lo farà nemmeno Hezbollah che, come Teheran, ha non pochi problemi di consenso in patria. Possiamo dire che Israele ha ottenuto con successo il predominio dell’escalation in questo conflitto; essenzialmente proiettando al mondo e alle parti in guerra che è pronto a fare il passo successivo sulla scala dell’escalation, se dovesse presentarsene la necessità. Teheran ed Hezbollah si trovano in una situazione di tipo “Catch 22”: cioè in un dilemma politico, come nella miniserie televisiva “Comma 22”. I paesi arabi della regione come Giordania e Arabia Saudita tengono a far sapere all’Iran che proibiranno il passaggio di missili e droni iraniani attraverso il loro spazio aereo.

Restano due scenari per Teheran ed Hezbollah. Una risposta limitata e coordinata, per salvare l’onorabilità ferità. Altro scenario possibile è quello di un attacco massiccio dal Libano, molto insidioso data la vicinanza del Libano a Israele, questo fuoco in arrivo sarebbe più difficile da bloccare. Hezbollah possiede oltre 1.000 missili, molti dei quali dotati di kit di guida di precisione, e gli Stati Uniti e i loro alleati potrebbero non avere lo stesso preavviso del 13 aprile. In questo caso, Israele probabilmente reagirebbe con forza, potenzialmente lanciando un’importante operazione in Libano.