Everett Worthington è un influente psicologo. Nel panorama scientifico il suo nome è legato indissolubilmente al tema del perdono”. Ha elaborato e costruito un modello che accompagna le persone a perdonare e numerosi studi hanno confermato come saper (e sapersi) perdonare possa migliorare la qualità della vita. Già da anni, aveva sviluppato questo modello, quando la notte di Capodanno del 1996 gli accadde una tragedia. Dei balordi entrarono in caso della madre, la derubarono, la picchiarono barbaramente e dopo averla stuprata la uccisero con una spranga di ferro.

Nei suoi libri, Worthington racconta l’orrore e le emozioni di aver dovuto vedere con i propri occhi la scena del crimine e il suo dramma interiore: lui che da anni faceva conferenze sull’importanza di perdonare, ora si trovava a fantasticare vendette. Ma proprio in questa occasione ha compreso la potenza del perdono e come solo il perdono avrebbe potuto salvarlo da quell’atrocità. Attenzione! Perdonare non significa riconciliarsi, può accadere (non sempre) ma solo dopo. Non vuol dire neppure dimenticare o soprassedere. Perdonare significa abbandonare il diritto al risentimento verso chi ci ha ingiustamente ferito.

Nulla ci restituirà quello che ci è stato tolto, ma possiamo scegliere di riempire quel vuoto con odio, astio, rabbia o ostilità (portandone il peso), oppure lasciare che in quello spazio fioriscano le nostre migliori caratteristiche. Ciascuno di noi è un giardino dove cresce quello che seminiamo. Perdonare è non voler lasciare alle sterpaglie neppure un centimetro quadrato del nostro giardino.
Noi italiani non sappiamo perdonare. Non ci riusciamo proprio. I nostri “giardini all’italiana” hanno sempre quell’angolo oscuro, dove sterpi e rovi d’odio imperversano innaffiati dal nostro rancore. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul rancore che il popolo esercita senza limiti (soprattutto sui social).

Chi sbaglia, indubbiamente, deve pagare e redimersi. Ma una volta che ha pagato, va perdonato. Sembra scontato ma così non è. Chi sbaglia non è sbagliato. Ha commesso un errore (più o meno grave) ma non è egli stesso un errore. Nel mondo anglosassone si esalta il fallimento, come occasione di apprendimento. Nel nostro il fallimento è uno stigma che ti porti per tutta la vita. Nulla potrà mai riabilitarti completamente, in Italia l’errore è un marchio a fuoco indelebile.

I veri esclusi in Italia sono coloro ai quali non perdoniamo lo sbaglio fatto (o forse non fatto). Per di più, non importa se ci sia stata una condanna e figuriamoci se è rilevante il grado di giudizio. Il tribunale popolare non ne ha bisogno. Se “dicono” che tu abbia sbagliato, allora hai sbagliato e di conseguenza, tu “sei sbagliato”. E se sei sbagliato allora vuol dire che non sei uno di noi. Perché noi, qui – popolo italiano – non sbagliamo mai.

Andrea Laudadio

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