La polemica
Il fascismo secondo Cacciari: c’era col green pass, non con la Meloni
Nelle ultime settimane è divampata la focosa polemica di Cacciari contro l’impiego a sinistra della nozione di fascismo per abbozzare una spiegazione dei fenomeni politici contemporanei. Questa esigenza di pulizia concettuale ha pure un senso, e per un verso rassicura anche. Dopo aver convocato con il giurista Mattei il nuovo “Cln”, proprio per combattere la deriva repressiva in atto nelle opache democrazie occidentali alle prese con l’emergenza Covid, Cacciari invita a deporre la critica delle armi perché il pericolo totalitario è scomparso e si può rinunciare a sgrassare gli anfibi.
Tirato un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo di vedere i più celebri intellettuali darsi alla macchia lasciando sguarnita la povera repubblica delle idee e degli studi televisivi, va però valutato il senso dell’invito del filosofo a leggere Foucault per capire come la categoria di fascismo vada relegata definitivamente nella archeologia della teoria politica. Stanno proprio così le cose? Per Cacciari il totalitarismo è un concetto assai mobile che si accende e si spegne a intermittenza. Nella sua visione, con personalità autoritarie come Speranza e Draghi al governo si attua, attraverso le misure sanitarie, una “sperimentazione di massa” sui nudi corpi e sulle azioni individuali che è tipica dei regimi autocratici. Fuori dalle loro politiche restrittive e di sorveglianza, l’arcipelago Gulag si dilegua e si entra in un ritrovato regno della libertà.
La richiesta di un green pass era equiparata in influenti manifesti dei filosofi del “dubbio e precauzione” all’adozione di “una stella gialla virtuale”. Secondo l’interpretazione offerta a reti unificate da Cacciari, l’emergenza pandemica che sollecita politiche pubbliche limitative dell’autodeterminazione del singolo “sta accelerando una deriva, con un accentramento del processo decisionale, lo svuotamento del Parlamento, la fine della democrazia rappresentativa”. Fino a qualche mese fa Cacciari leggeva il caso italiano nei termini di uno stato di eccezione che comprimeva visibilmente le libertà una dopo l’altra: “Viviamo da oltre un ventennio in uno stato di eccezione che condiziona, indebolisce, limita libertà e diritti fondamentali”. Le uscite dei “virosofi” erano postate trionfalmente sui canali social da Giorgia Meloni, che accoglieva le descrizioni dei critici dello stato di emergenza sanitaria come una formidabile leva per scassare la repubblica dei divieti e rintracciava anche nelle splendide politiche negazioniste di Bolsonaro, Trump e Johnson un sano spirito di libertà conservatrice.
La visione apocalittica di Cacciari (“Lo Stato di emergenza perenne diventa Stato di eccezione, che significa la sospensione delle garanzie costituzionali”) era prontamente rilanciata anche da Marco Damilano. Sull’Espresso l’allora direttore registrava nell’indirizzo legislativo adottato negli ultimi anni un persistente processo di svuotamento degli istituti di garanzia del regime democratico che “trasforma l’emergenza perenne in uno strumento di governo, uno stato di emergenza costituzionalizzato”. La Repubblica era insomma sprofondata in un regime di doppio Stato con l’annichilimento di ogni certezza del diritto e di qualsiasi libertà individuale. Persino Giuliano Ferrara (che ancora rivendica un interessante romanzo di formazione di “vecchio realista di matrice comunista e vaga conversione liberale”) ammetteva che “avevano visto giusto” Cacciari e Agamben nella loro denuncia dei ferrei meccanismi disciplinari di una repubblica che risultava “qualitativamente diversa ma in qualche modo affine” ai totalitarismi del ‘900. I filosofi biopolitici e schmittiani avevano insomma intuito la genesi inquietante di “una forma inedita di autoritarismo di Stato”.
Le spericolate e regressive dinamiche istituzionali in corso a Roma indicavano in maniera brutale “la svolta autoritaria dello Stato italiano” e la compressione disciplinatrice della nuda vita biologico-naturale. Ma ora, dopo l’esperienza del governo di unità nazionale e con la vittoria elettorale della destra radicale, qual è lo stato della democrazia in Italia? Se per una componente significativa dell’opinione pubblica autoritarie e repressive si mostravano le truci democrazie europee che non seguivano l’illuminato modello sanitario di Bolsonaro, dinanzi a un governo che intende confermare l’ergastolo ostativo nonostante i moniti della Corte costituzionale, abolire l’obbligo di mascherina negli ospedali e tra i fragili, non festeggiare il 25 aprile (come dichiara il Presidente del Senato), rivedere in chiave securitaria l’art. 27 Cost. per “limitare la finalità rieducativa” della pena, modificare la forma di governo in senso presidenziale, dare una stretta a diritti civili e immigrazione, è invece severamente proibito scomodare vetuste categorie del ‘900.
Insomma, prima di “Madonna Giorgia” e della sua “musica austera” era in atto un vistoso scivolamento autoritario dello Stato e parlare di prove di totalitarismo sperimentate in Italia era un esercizio di realismo critico per smascherare il nuovo volto repressivo dell’Occidente un tempo liberale. Con la vittoria della “zingara andalusa”, invece, perde di senso ogni riflessione sulle analogie tra le amnesie del “signor Presidente del Consiglio” e i fenomeni di deriva illiberale tipici della storia d’Italia. Finita la stagione cartesiana del dubbio metodico, Cacciari non ha più precauzioni: “I grandi rischi per la nostra democrazia non mi sembrano proprio venire da questa destra”. Morta con Speranza, la democrazia rappresentativa è finalmente rinata con Meloni, nelle cui gesta e parole (di grande eleganza e sensibilità quelle piovute in Aula sulla senatrice Cucchi) è impossibile cogliere la minima insidia alle libertà costituzionali. Anzi, per Cacciari quello del Presidente del Consiglio “non è stato un discorso di destra”, ma di una persona come “se ne vedono poche”.
Per fortuna che, in mezzo al coro conformista che inneggia alla rinascita della politica dopo la deriva autocratica del governo di larghe intese, ogni tanto si leva la voce di una qualche personalità dissonante. Con intelligenza Lina Palmerini (del “Sole 24 ore”) ha smontato le invettive di Cacciari contro le ossessioni della sinistra a pensare ancora in termini di fascismo-antifascismo, obiettando che in realtà esiste un filo che collega chiaramente il sostegno di Meloni alle contemporanee democrature sovraniste (Ungheria e Polonia), recentemente formalizzato con il voto al Parlamento europeo contrario alla denuncia dell’involuzione sul piano dello Stato di diritto messa in atto dal governo di Orbán, e l’attualità della questione del fascismo e della democrazia liberale.
Non si tratta di denunciare una riedizione delle pratiche del ‘900, con tanto di olio di ricino e manganello (anche se sono così sicuri Cacciari e gli altri che il movimento di Trump, nelle sue derive golpiste e assaltatrici, sia molto distante dalle scorciatoie armate del secolo scorso?), ma di percepire i segnali del restringimento del catalogo delle libertà moderne nel solco della ostentata condivisione delle legislazioni punitive e illiberali delle “autocrazie elettorali”. La conquista di Palazzo Chigi da parte della destra radicale muta in profondità i rapporti di forza (non solo politico-elettorali, ma costituzionali) in Europa, e trascurare il pericolo per non apparire un antifascista retrò è segno di miopia analitica. All’Austria (scossa già sul finire degli anni ’90 dal successo del partito di Haider), la Polonia, l’Ungheria, da ultimo la Svezia, esperienze ancora periferiche, con l’Italia si aggiunge alla lista delle democrazie europee insidiate da una minaccia interna un grande Paese fondatore del progetto comunitario.
Sinora l’ordinamento europeo, con la sorveglianza rigorosa degli Stati membri alla luce dei “valori” su cui si fonda l’Ue (“rispetto della dignità umana”, “libertà”, “democrazia”, “Stato di diritto”, ecc.), costituiva un antidoto sicuro alle derive autocratiche e, allo stesso tempo, uno stimolo all’allargamento dei diritti civili dinanzi alle pigrizie o ostilità delle maggioranze politiche. Ma, con Roma che cede e con i diversi sistemi politici espugnati progressivamente dalla destra radicale, un’Europa sempre più sovranista perderebbe il valore storico di solido ancoraggio delle libertà democratiche, frutto avanzato dei grandi modelli del costituzionalismo continentale.
L’intensità dell’assalto di Meloni e Salvini ai diritti garantiti non dipende solo dalle intenzioni delle destre revansciste di colpire migranti, libertà delle donne, principio del primato del diritto europeo, garantismo penale, ma dallo smottamento effettivo che il nuovo esecutivo, confidando nel successo dei “conservatori e riformisti” in altri Stati membri, riuscirà a determinare su scala europea, per spezzare ogni velleità di sviluppo in senso federale del quadro istituzionale dell’Ue.
Con una parte dell’opposizione che già si concede alla destra per sbrigare sottobanco operazioni di pronto soccorso in vista, forse, della grande riforma presidenziale, con i media omologati (persino Natalino Irti trova il modo per benedire l’aria che tira: “nobile e generosa è la sovranità alimentare”) quando non direttamente inginocchiati alla “fuoriclasse”, con l’opportunità per i partiti di maggioranza di fare il pieno delle nomine negli organismi di garanzia, i più delicati equilibri costituzionali scricchiolano. In tanti descrivono in maniera caricaturale l’antifascismo di oggi come un residuato da archivio storico, ma così sottovalutano la brutta onda nera che monta e accompagna l’espansione delle democrazie illiberali che, là dove possono, rispolverano i simulacri degli istituti repressivi di ieri.
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