L’assente ha sempre ragione, scriveva Giuseppe Pontiggia.
E nel dipanarsi carnevalesco e arrabbiato, caotico, punteggiato di vetero-slogan e fumogeni, dei cortei femministi per le principali piazze d’Italia si è scorta la fisionomia di un fantasma, di una assenza celata nell’oscuro cattiverio della coscienza sporca e che pure ha ragione da vendere, nonostante le femministe intersezionali: le donne israeliane.
Figlie di un Dio minore, un po’ meno donne delle altre, le israeliane brutalizzate, violentate, ammazzate nei modi più crudeli o rapite e condotte a Gaza, esibite sulle jeep come trofei, fatte circolare a beneficio di una piazza con la bava alla bocca, sono semplicemente scomparse.
L’aria che sarebbe tirata la si era capita sin da subito.

Bastava leggere il pessimo comunicato, pessimo nella sostanza e nell’italiano sbilenco, con cui Non una di meno aveva riassunto e anticipato la piattaforma concettuale dei grandi cortei, a partire da quello romano: uno stortignaccolo e funambolico equilibrismo sulla corda che separa oscenità terzomondista da pregiudizio ideologico, assemblando patriarcato, violenza contro le donne, a partire dal caso della povera Giulia Cecchettin, per finire, attraverso qualche lovecraftiano gorgo-spazio temporale, col condannare Israele, Stato genocida per eccellenza secondo le filosofe crepuscolari di Non una di meno.
Hanno smesso di sputare su Hegel, come suggeriva la Lonzi, ed evidentemente hanno preferito iniziare a sputare su Israele e su quelle donne che Hamas ci ha tenuto a immortalare, in un delirio social da mostra delle atrocità, con pantaloni inzuppati del loro stesso sangue in corrispondenza degli organi genitali, coi tendini recisi per non farle scappare, come si sarebbe fatto in epoche passate con gli schiavi, stuprate una, cinque, dieci volte, prese per i capelli e trascinate in un moto di dominio primitivo.
A Roma, a Torino, a Milano, il movimento femminista si è spaccato, prevedibilmente, con una fetta di intellettuali e di femministe, anche storiche, che non hanno voluto assecondare questa deriva psicotica e rullante, nutrita a colpi di complessità e di fucile, quello di Hamas, coi suoi silenzi, le sue reticenze, e il suo oblio.

E mentre a Roma, il corteo finiva per cercare di smottare la sede di Pro Vita & Famiglia, le cui idee forse, la butto qui, sarebbe il caso di contrastare sul piano delle idee e non su quello della tentata devastazione fisica, lo spettacolo più indegno ma a modo suo coerente ci è giunto da Milano.
Qui, in piazza Castello, in un appuntamento pro-palestinese, pur scisso dal precedente corteo femminista, è andata in onda la peggiore retorica anti-israeliana, rimandata in tutto il suo fulgore dal video di una militante col volto travisato dalla kefiah e dalla bollente retorica sarcastica, alle cui spalle garrivano le bandiere palestinesi e annuivano i patriarchi della militanza pro-palestinese, a partire da Mohammed Hannoun, noto ai servizi di intelligence mondiali come finanziatore di Hamas e che noi in Italia facciamo scorrazzare come fosse il figlio di Foucault.
La stand-up comedian pro-Hamas ha pensato bene di irridere gli ostaggi israeliani appena rilasciati, definiti a monte ‘prigionieri di guerra’ e poi ‘usciti da una casa di riposo’.

E giù di glorificazione in glorificazione dei guerriglieri di Hamas, sempre col volto celato, roba che se un pensionato durante un corteo in una giornata gelida si tira poco su lo scaldacollo i poliziotti lo fermano per violazione del TULPS e qui invece niente.
Nonostante oggi le femministe intersezionali si affrettino a far rilevare come quell’appuntamento non fosse inserito nella loro agenda di mobilitazione, verrebbe da chiedere loro perché prendano le distanze, visto che quella retorica è esattamente la stessa retorica che dimentica le donne israeliane e definisce Israele uno Stato genocida. D’altronde anche a Roma, alcune femministe, kefiah al collo, intervistate per via hanno sostenuto che non si hanno prove certe che siano avvenute violenze contro le donne israeliane.
Negare, negare sempre, come facevano durante i processi, negli anni settanta, quelli che le loro madri combattevano.