C’è un’immagine nei ricordi dei siciliani che il tempo non ha sbiadito. Sono gli anni della cosiddetta “primavera di Palermo”, quando un giornalista americano arriva in città per raccontare il movimento politico e sociale che, all’inizio degli anni Novanta, scuote i palermitani stanchi della cultura dell’illegalità promossa dalla mafia. Il cronista cammina indossando un giubbotto antiproiettile. Un ricordo, questo, tornato ancor più vivo alla memoria pochi giorni fa, quando Diva e Donna pubblica un servizio fotografico che immortala il conduttore e giornalista Massimo Giletti, seguito dalla scorta assegnatagli lo scorso luglio, camminare lungo le vie di Roma col giubbotto antiproiettile. Un’immagine che ha infiammato i social. Il giornalista e presidente della Commissione Antimafia dell’Ars, Claudio Fava, ha parlato, sul suo profilo Facebook, di «miseria di un paese in cui l’esibizione della vita ha preso il posto della vita reale. Da oggi all’antimafia da talk show e fanfare dobbiamo aggiungere quella da giubbotto antiproiettile».

Presidente, cos’ha pensato quando ha visto le foto di Massimo Giletti pubblicate da Diva e Donna?
Una tradizione di sobrietà, che va avanti da anni, è stata spazzata via da quella foto. Abbiamo avuto centinaia di persone che sapevano davvero che la loro vita era in pericolo. E magari a qualcuno di loro è stato anche detto che indossare un giubbotto antiproiettile o ricorrere ad altri strumenti di tutela avrebbe offerto un livello di sicurezza maggiore. Ma a questi consigli è sempre seguito un senso di normalità alla propria esistenza in modo che il rischio non fosse esibizione. La cosa peggiore, in questi casi, è permettere che la propria condizione di persona sottoposta a tutela diventi oggetto di racconto mediatico, di suggestione popolare. Parlo per conto dei vivi ma ci sono anche quelli che sono morti per i quali bisognerebbe avere più rispetto. Sapevano di rischiare e hanno vissuto con sobrietà. Massima solidarietà a chi si trova in queste condizioni ma l’esibizione è riprovevole.

Ha parlato di antimafia da talk show: cosa sta diventando, in questo senso, l’informazione che parla di mafia?
Il giornalista antimafia è un neologismo circense di questi anni. I giornalisti fanno i giornalisti e se devono raccontare la mafia, lo fanno dando notizie, cercando di approssimarsi alla verità. Se raccontando la mafia, questa ci rimane male e ti presenta il conto, non sei un giornalista antimafia ma un giornalista che ha fatto bene il proprio mestiere. Queste etichette da grande fratello che raccontano fuochi d’artificio in salotti televisivi sono la fotografia di un tempo che con la lotta alla mafia c’entra poco. La lotta alla mafia è fatta di poche parole e di toni bassi. E sono tanti i colleghi che, pagati tre euro a pezzo, senza contratto e senza forme di protezione raccontano il malaffare.

A quest’antimafia da salotto si aggiunge un altro problema. Talvolta gli strumenti della lotta alla criminalità organizzata, ad esempio lo scioglimento dei Comuni infiltrati dalle mafie, sono funzionali a garantire carriere e proteggere interessi politici ed economici. La Commissione che presiede si è occupata a lungo, in maniera dettagliata, di alcuni casi di scioglimenti per mafia sospetti. Ad esempio Scicli, Racalmuto e Siculiana. Da cosa nasce l’utilizzo distorto e disinvolto di questi strumenti antimafia?
Si è determinata una sorta di mitologia sulla parola mafia, diventata un passepartout. Ad esempio si diceva “in quel comune c’è la mafia” e si urlava “sciogliamolo”. O ancora “io sono l’antimafia” e il coro gridava “accompagniamolo”. Questi usi disinvolti e distorti di strumenti importanti nell’azione di contrasto alla mafia nascono dal fatto che mettersi alla testa di un plotone di antimafiosi garantisce visibilità e carriera. Sulla vicenda di Scicli, ad esempio, abbiamo scritto una relazione e sono venute fuori interrogazioni parlamentari lunghissime in cui il titolo era “Scicli delenda est”, cioè dev’essere sciolta comunque. Dal punto di vista mediatico si racconta di una cupola mafiosa, di un sindaco mafioso, di una città mafiosa e dunque da sciogliere. Poi col tempo si scopre che la cupola era formata da un soggetto condannato per furto di carburanti, che il sindaco viene assolto e il presidente del tribunale si chiede com’è stato possibile rinviarlo a giudizio.

Nelle conclusioni della relazione sullo scioglimento del Comune di Scicli, la Commissione scrive che “s’impegnerà a proporre un approfondimento specifico e una valutazione critica e organica sul testo del Tuel, relativo allo scioglimento dei comuni”: cosa non la convince? E in che modo si può intervenire?
Gli strumenti attuali non sono sufficienti per comprendere realmente quale sia il grado di contaminazione mafiosa all’interno di un Comune. Non sempre ci sono queste evidenze. E poi sciogliere un consiglio comunale non significa necessariamente bonificare un Comune. Il lavoro del commissario prefettizio può arrivare fino a un certo punto. Bisognerebbe prevedere una capacità d’intervento che riguardi ancor più la struttura amministrativa interna piuttosto che consigli comunali e giunta. I consiglieri cambiano, i funzionari restano. E anche per prevedere forme di accompagnamento che siano meno drastiche dello scioglimento. Mi riferisco ad un lavoro sussidiario di tutela e sorveglianza attiva lasciando il Comune in vita. Poi abbiamo scoperto che, in questi anni, alcuni scioglimenti sono stati pilotati da una bolla d’opinione pubblica, giornalistica, istituzionale e imprenditoriale che vuole che in quei Comuni ci sia la mafia. E i commissari, i prefetti, sentono il peso di quella vulgata così radicata.

Secondo lei a Mezzojuso, sciolto per mafia, questa bolla di opinione pubblica ha avuto il suo peso? La Commissione Antimafia si è occupata del caso delle sorelle Napoli.
Prima dell’avvenuto scioglimento abbiamo solo ascoltato gli amministratori del Comune e le sorelle Napoli. Poi abbiamo ritenuto che non ci fossero ragioni per aprire un’indagine sul Comune di Mezzojuso. Ma non do giudizi su vicende che conosco marginalmente.

Le scarcerazioni di alcuni mafiosi hanno fatto infuriare parte dell’opinione pubblica. Sul tema della giustizia, secondo lei, in relazione al contrasto alle mafie, c’è un po’ di confusione o no?
Abbiamo una magistratura molto attenta, fatte le debite eccezioni, con un’esperienza di lotta alla mafia unica al mondo. La necessità di ricorrere al 41 bis è un’affermazione di debolezza perché vuol dire che non siamo capaci di garantire che le carceri siano un luogo che impedisca alle organizzazioni criminali di riorganizzarsi. Detto questo, in questa fase storica, il 41-bis è una necessità, non un’ansia di punizione o di vendetta. Ma occorre una gestione che sia conseguente alla responsabilità che lo Stato si assume. Bisogna procedere con grande prudenza e buon senso. Penso che un capomafia che sta per morire debba avere il diritto a morire a casa sua, perché la dignità della morte è quella della vita. Allo stesso tempo penso che se quel capomafia si trova in regime di 41-bis è necessario venga rispettato lo spirito della norma.

La legge Spazza-corrotti la convince?
Ho la preoccupazione che queste norme si carichino di una funzione risolutrice e salvifica. Ma non è così. La norma serve fino a un certo punto. Se non si ripensa il rapporto tra amministrazione e comunità, fra funzione politica e società le cose non funzioneranno. Il paese che si affida solo alle norme di repressione e alle sentenze ritenendo sia il metro etico, è un paese distratto. L’intervento del giudice è sempre una sconfitta, non perché non debba intervenire, ma perché significa che prima non c’è stato un intervento di autotutela del corpo politico e istituzionale attraversato da interferenze. Delegare alla magistratura è troppo comodo.