La prefettura di Palermo, allora guidata da Antonella De Miro, l’aveva definito «un comportamento indicativo di una forma di rispetto rivolto ad un uomo di mafia». Così grave tanto da essere menzionato tra le prime pagine delle motivazioni che hanno portato, lo scorso dicembre, allo scioglimento per mafia del comune di Mezzojuso. Ma l’ex sindaco del piccolo paese in provincia del capoluogo siciliano, Salvatore Giardina, non ha mai partecipato al funerale del boss Nicola “don Cola” La Barbera (uno dei vivandieri di Bernardo Provenzano) come evidenziato dal tribunale civile di Termini Imerese – presidente Raimondo Lo Forti – che lo scorso agosto nel provvedimento che dichiara non candidabile Giardina scrive che «l’effettiva partecipazione al funerale di don Cola La Barbera non è in questa sede determinante alla luce della documentazione prodotta in corso di giudizio». Infatti Antonio Di Lorenzo e Filippo Liberto, legali di Giardina, hanno presentato diverse cartelle cliniche del centro di fisioterapia gestito dall’ex sindaco a Villafrati.

Documenti firmati proprio dall’ex primo cittadino in un orario compreso tra le 15 e le 19 del 29 ottobre 2004, mentre si stavano svolgendo le esequie del boss. Insomma Giardina non si trovava a Mezzojuso. Il tribunale di Termini Imerese, dunque almeno su questo punto, smentisce la prefettura palermitana. Ed è già un primo cortocircuito che desta più di qualche dubbio sulle reali motivazioni che hanno portato allo scioglimento per mafia di Mezzojuso. Paese sotto i riflettori dei media con la trasmissione su La 7 di Massimo Giletti, Non è l’arena che, con tanto di puntata live di oltre tre ore nella piazza principale di Mezzojuso, ha raccontato la storia delle sorelle Irene, Marianna e Gioacchina Napoli. Le tre donne – figlie di Salvatore “Totò” Napoli ritenuto, secondo fonti investigative, “capo indiscusso della famiglia mafiosa di Mezzojuso” già dalla fine degli anni Cinquanta e protettore, negli ultimi anni della sua latitanza, di Bernardo Provenzano nascosto proprio da Napoli in un monastero ortodosso del paese, e iscritto nel 1971 nello schedario degli indiziati per mafia, al numero 859, dall’allora capitano della stazione dei carabinieri di Corleone Carlo Alberto Dalla Chiesa – sono state vittime di danneggiamenti alla recinzione dei loro campi con conseguenti invasioni da parte di bovini che ne danneggiavano le colture.

Dietro questi danneggiamenti ci sarebbe la mano della mafia. Le donne hanno denunciato i fatti e la loro storia, grazie ai media, ha avuto grande eco. La giunta comunale, allora guidata dal sindaco Giardina, ha espresso più volte solidarietà. Ma l’amministrazione è stata accusata di un comportamento passivo nei confronti degli episodi subiti dalle Napoli. Intanto la macchina mediatica era stata messa in moto e il mostro sbattuto in prima pagina, anzi in diretta su La 7. Giletti ha anche pubblicato un libro dal titolo Le dannate – Storia delle sorelle Napoli che non si arrendono alla mafia. Ma come si è arrivati allo scioglimento per mafia del Comune di Mezzojuso? Nelle motivazioni redatte dalla prefettura palermitana si parla di irregolarità nell’organizzazione di feste e sagre, nel conferimento dei rifiuti, nell’affidamento degli appalti, nella riscossione dei tributi e delle amicizie pericolose di singoli amministratori.

Giardina, però, è sicuro: «Se si trova una parola in uno degli atti amministrativi dove io abbia favorito questi presunti mafiosi, perché ad oggi non c’è nessun condannato per 416 bis a Mezzojuso, voglio l’incandidabilità a vita. Non per due anni. Anche perché tutte le aziende che la mia amministrazione avrebbe favorito sono poi state utilizzate nella gestione dei commissari prefettizi, così come i lavori post-alluvione nel 2018 costati 600 mila euro sono stati regolarmente rendicontati dalla Protezione Civile regionale. Quindi delle due l’una: o la Protezione Civile regionale è pure mafiosa o non lo è nessuno. O lo sono anche i commissari prefettizi che hanno continuato a gestire il paese affidandosi alle medesime ditte oppure entrambe le gestioni operavano nel bene. Come sono sicuro che sia stato».

Tra queste c’è la Esperia che si è occupata del recupero crediti. Nessuna commessa con trattativa privata sarebbe stata assegnata a parenti del vecchio capomafia Benedetto Spera. Un consorzio a cui allora aderivano più di 1500 comuni a livello nazionale: «Anche se fosse stata assegnata ai parenti del boss per gli altri 1499 comuni non si profilerebbe il reato e per Mezzojuso sì? Gli altri comuni non sono stati sciolti per mafia. Al contrario continuano a lavorare con la ditta Esperia», dice Giardina. L’incandidabilità non ha riguardato, invece, l’ex generale dei carabinieri ed ex assessore – dimessosi dopo sei mesi dall’incarico – nella giunta Giardina, Nicolò Sergio Gebbia, per il quale il tribunale ha rigettato la richiesta proposta dal Viminale. Per Gebbia «il caso montato sulle sorelle Napoli è pirandelliano. Non parliamo di vittime della mafia ma di un fondo cospicuo per le vittime di mafia che non trova vere vittime di mafia a cui poterlo elargire. E così le vittime di mafia si devono inventare. E per errore ci si è imbattuti in questo caso. Sebbene, preciso, le sorelle Napoli siano brave persone. È stata una mistificazione che ha avuto la regia dei professionisti dell’antimafia».