«Dobbiamo ringraziare Paola». Così ha detto Piefrancesco Favino da Fabio Fazio a proposito del magic moment del cinema italiano che vive uno stato di grazia come raramente è capitato negli ultimi decenni certo grazie a “Paola” ma non solo a lei. Il film della Cortellesi sta battendo i record d’incassi, celebrato dalla critica, amatissimo dal grande pubblico. Non è questa la sede per capirne fino in fondo delle ragioni al di là di quelle evidentissime della forza della narrazione, la bravura degli interpreti, il bel miracolo estetico: cinema d’autore. Si dice infatti «ho visto la Cortellesi» invece di dire «ho visto “C’è ancora domani”» come si dice «ho visto Scorsese» più che «ho visto “Killers of flower moon”», e quando il nome del regista identifica un film più del titolo significa che è cinema d’autore. Dopodiché è del tutto lecito e anzi opportuno non esagerare con i complimenti – è un atteggiamento mentale che va bene sempre – e certo che Rossellini è un’altra cosa: eppure la gente va in massa a vedere i film italiani (per Natale la Cortellesi supererà i 30 milioni di incasso).

Ma non c’è solo lei, dicevamo, nel magic moment. Antonio Albanese ha fatto un film delicato, e struggente, “Cento domeniche”, basato sulla tragedia di un uomo qualunque strangolato dalla banca, questo mostro concreto ma invisibile che può rubarti la vita. C’è Alba Rohrwacher con “La chimera”, c’è naturalmente il grandissimo “Io Capitano” di Matteo Garrone che va ai Golden Globe e poi speriamo all’Oscar, c’è “Il comandante” di Edoardo De Angelis, c’erano stati il magnifico “Rapito” di Marco Bellocchio e “Il sol dell’avvenire” di Nanni Moretti, è uscito adesso “Palazzina Laf” di Davide Riondino: sono i titoli più noti in una impressionante marea di film italiani. Nei quali c’è poesia, storia, e anche il sociale. La ripresa è notevolissima. Tutto ciò detto, la questione che si potrebbe porre dunque è la seguente: questa rinascita del cinema italiano sta avvenendo dentro un contesto politico cui esso non si conforma minimamente.

C’è cioè uno scarto evidente tra questo cinema e la vagheggiata egemonia culturale della destra. Si può banalmente dire che si conferma che il cinema italiano d’autore sia “di sinistra” come fu in buona misura negli altri momenti alti (il neorealismo, la commedia, l’impegno degli anni Settanta)? No, non si può dire perché è una banalità e nemmeno tanto vera. Non è che si possa dire che “C’è ancora domani” sia un film “di sinistra” come all’epoca fu, che so, “La classe operaia va in paradiso”. Cortellesi non è Elio Petri e Albanese non è Carlo Lizzani o Citto Maselli. E però tutto il racconto della nuova destra, la sua “enciclopedia” basata su vocaboli come Nazione, Famiglia, Merito, Religione, e autori come Prezzolini, Tolkien e via dicendo, bene, di tutto questo non v’è traccia nella recente produzione culturale e segnatamente nel magic moment del nostro cinema: insomma, è un fatto indubbio che mentre la destra va occupando i posti chiave della cultura italiana, allestisce mostre che piacciono al governo, ambisce a erigere la sua famosa egemonia culturale, però nel cinema non riesca a penetrare, a mettere la testa fuori.

Pupi Avati è un uomo di destra, ma il suo cinema cos’ha di destra? Per usare un avverbio che la presidente del Consiglio ripete ogni momento: banalmente, questi nuovi governanti non annoverano personalità in grado di costruire un racconto strutturato né nel cinema né nella letteratura. E non parliamo della televisione, dove è tutto un flop. Se l’idea per costruire una narrazione è ripartire dalle Foibe non ci siamo proprio. Questa è revanche e basta. Gli mancano gli artisti, gli intellettuali, gli scrittori, i registi, gli sceneggiatori, ma soprattutto il Discorso. Un’idea forte di racconto del mondo, del Paese, o dei sentimenti. Forse il “melonismo culturale” ha pensato di risolvere il problema partendo “dall’alto”, occupando le caselle di direzione delle istituzioni culturali e pensando che via via il resto venisse da sé. Ma finora da destra non sta arrivando niente. Pino Insegno a parte, s’intende.